“Permettete che mi presenti: sono Amodeo, lo spirito del castello di Parella, in tempi remoti conosciuto come castello di Pianavilla e poi come castello di San Martino dai marchesi che lo abitarono fino al 1530, quando morì l’ultimo della casata. Il territorio che ci circonda è chiamato Canavese perché in passato vi predominava la coltivazione e la lavorazione della canapa, fibra vegetale assai robusta che veniva utilizzata sia nella filatura che per realizzare il sartiame delle navi. La canapa del Canavese era considerata di particolare pregio e resistenza. Di recente si è scoperto che i suoi semi sono assai ricchi di Omega 3. Il territorio si inerpica verso il massiccio del Gran Paradiso motivo per il quale la piana è assai ricca d’acqua oltre che di fonti sorgive. Le mie origini si perdono nella bruma del tempo: ho il vago ricordo di essere apparso per la prima volta appena cementarono l’ultima pietra di questa sorta di casa fortezza che chiudeva il passaggio a chi volesse transitare dal piano verso la montagna, tra Ivrea e Castellamonte, via di accesso strategica all’Alto Canavese verso Occidente, verso le sorgenti della Dora Baltea e la Valle d’Aosta andando a Nord. Erano tempi truci, quelli in cui apparvi per la prima volta: in Oriente i mongoli di Gengis Khan con il ferro e il fuoco avevano creato un impero che attraversava tutto il continente asiatico arrivando fin nel cuore polacco dell’Europa, in Occidente gli Arabi dominavano il bacino meridionale del Mar Mediterraneo compresa la penisola spagnola, gli europei stavano esaurendo il loro spirito crociato nel Vicino Oriente perdendo anche l’ultimo saliente sulle coste palestinesi, Acri, che sarebbe tornato in mani mussulmane nel 1291. I nobili dell’epoca vestivano di ferro quando cavalcavano ben ritti sulle staffe, portavano la spada al fianco e impugnavano la mazza ferrata che calavano sulla testa dei bifolchi per farli ragionare meglio, erano di carattere collerico, soffrivano di gotta per l’eccesso di carne arrostita nella loro dieta. I duelli e le ordalie erano cosa di tutti i giorni. Pregavano e ammazzavano. Così erano i tempi. I loro antenati erano arrivati nella seconda metà del 600 con l’invasione longobarda che era entrata in Italia da Est, lasciandosi alle spalle le brulle pianure della Pannonia, oggi Ungheria, fuggendo davanti a nomadi ancora più feroci di loro, gli Àvari. Parlavano una lingua che sembrava il grugnito di un cinghiale furioso, le loro spade erano lunghe come le loro barbe. Erano pochi ma in battaglia prevalevano sempre sui molti. Erano alti, gli occhi chiari, le chiome bionde che tendevano al castano. I loro discendenti si erano ripuliti, avevano imparato a lavarsi, mai troppo, si erano sbarbati, senza esagerare, erano diventati cattolici senza smettere di peccare, che il piacere della carne e del sesso rende la vita degna di essere vissuta. La strada che portava da Ivrea a Castellamonte era assai ripida: i marchesi imponevano un pedaggio anche perché in cambio fornivano le stalle e i buoi che venivano attaccati in punta ai carri per superare l’erta micidiale. Nel tempo la casa fortezza divenne un castello a tutti gli effetti, dotata di una torre rotonda. Morto un re se ne fa subito un altro, così accadde anche per casa mia: già nel 1545 vi si era installato Alessio I della famiglia dei San Martino di Lorenzè. Riparò ciò che andava riparato compreso il ponte levatoio e il fossato antistante, ampliò l’edificio, fece affrescare gli interni, utilizzò (lui e i suoi discendenti) la tecnica del trompe-l’oeil per far sembrare marmo ciò che era invece pittura prospettica. Imbrogliare l’occhio, il significato letterale della parola, è tecnica antica che accompagna la pittura fin dall’origine dei tempi. Il Canavese fin dal 1416 faceva parte del ducato dei Savoia e seguì la dinastia nella sua lunga avventura attraverso i secoli che la portò ad assumere la corona di Sicilia nel 1713, quella di Sardegna nel 1720, quella d’Italia nel 1861. Ci ritrovammo in una repubblica nel 1946 ma questa è tutta un’altra storia.
Casa mia all’epoca del ducato divenne una residenza di campagna di nobili che risiedevano a Torino ma avevano la tomba di famiglia a Parella. Furono secoli di pace, di bimbi che correvano nel cortile e nelle campagne all’intorno, di cene pantagrueliche e bevute memorabili che aiutavano gli eredi a subentrare più velocemente ai parenti che morivano di indigestione o di gotta, salvo fare la stessa fine pochi anni dopo. Nelle campagne lavoravano i contadini, gli unici abbronzati, i nobili quando erano da queste parti si dilettavano con la caccia e gli amori cortesi con le pallide damigelle del castello e quelli assai più carnali nei fienili con le abbronzate donzelle delle campagne all’intorno. Quando i nobili, rivolgendosi ai contadini, li appellavano come figli loro, non andavano tanto lontano dalla realtà. Rischiai di svanire nel fumo di un incendio del 1626: le campagne del Canavese erano ben coltivate e i proventi servirono anche per il restauro. Nell’Ottocento i proprietari, passando da una generazione all’altra, da nobili diventarono borghesi, da torinesi diventarono genovesi. Nel 1921 il castello finì perfino nelle mani dei Padri Bianchi Missionari d’Africa, un ordine nato ad Algeri nel 1868, che vi stabilirono il loro seminario. Niente più banchetti e bevute ma le litanie che scandivano la giornata dei bravi missionari. Nel 1962 il castello tornò in mani laiche. Si chiamava Gian Luigi Dotto e provvide ai restauri del caso. La figlia Gabriella vendette il maniero a cavallo dei due secoli che separano il secondo dal terzo millennio. Fu una scelta incauta: chi l’acquistò spogliò l’edificio degli antichi arredi, che furono venduti non si sa dove, lasciando il nudo immobile. Poi scappò a sua volta. Per 10 anni solo il vento e la pioggia batterono alla mia porta. Pensai che i miei giorni fossero finiti: la pioggia si infiltrava tra le fessure del tetto, la verzura cresceva ovunque, gli antichi affreschi della corte esterna erano scomparsi sotto l’edera che si era arrampicata ovunque. Sarei scomparso assieme ai ruderi del castello? Nel 2011 arrivò Manital, una società di Ivrea specializzata nel facility management, parola oscura, ostrogota, che per me ha significato l’inizio di una nuova esistenza. Il castello fu restaurato in maniera filologica, gli affreschi presenti in tutte le sale del piano nobile tornarono a stupire chi li guarda: quando li osservi di fronte o dal basso, sembra che siano bassorilievi. E’ un effetto ottico esaltante. Furono restaurati i soffitti in cassettoni di legno, alcuni decorati, i pavimenti in legno furono recuperati, gli altri realizzati in cotto antico o in legno non trattato. Fu introdotto il riscaldamento a pavimento salvaguardando i pavimenti originali utilizzando un pozzo geotermico che pesca l’acqua freatica a 60 metri di profondità, furono ripristinati gli antichi serramenti che si sono rivelati migliori perfino di quelli più moderni, l’edificio è stato dotato di un cogeneratore per produrre elettricità. Di fatto, il Castello produce più energia di quanta gliene serva. C’è anche una sorgente a gas metano utilizzata come back up. Nel parco ci sono anche due fonti sorgive. Arrivò la domotica, che non è una malattia…. L’arredo, essendo scomparso quello originale, è stato sostituito all’insegna del contemporaneo elegante che dialoga con misura ed equilibrio con l’antico. I materassi sono da urlo: sia per il sonno che per chi vi pratica l’arte del kamasutra. I lampadari in cristallo sono stati realizzati da un artigiano milanese. Il led ha portato il sole ovunque. Arrivò una cucina spaziale, a induzione elettrica, installata all’interno di un cubo trasparente a vista di chi si reca nel ristorante che è stato intitolato ad Alessio I. Al piano terra la caffetteria è stata dedicata Alla Lettera 22, la più famosa delle macchine da scrivere portatili di Adriano Olivetti, che le produceva poco distante da noi, a un pugno di chilometri in linea d’aria. Ci sono sale, sempre affrescate, per eventi e riunioni, dei due cortili del maniero, uno introduce all’albergo, l’altro alle botteghe dedicate all’artigianato del territorio ma anche all’enoteca che in collaborazione con Slow Food e la Banca del Vino di Carlin Petrini di Pollenzo propone 330 etichette del miglior vino del Piemonte e dell’Italia intera oltre all’Erbaluce di Calusco e al Nebbiolo di Carema, i vitigni che coltiviamo a fianco e ai piedi del castello. Le camere sono 11, saranno 20 antro settembre, diventeranno 38 entro il 2019. A gennaio apre anche la SPA dell’albergo. Poi sarà la volta del lago balneabile artificiale con la fitodepurazione nel cuore del parco agricolo di 10 ettari di fianco e ai piedi del castello. Insomma, è work in progress come nei secoli passati. Le maestranze che hanno lavorato per ridarmi vita e garantirmi un futuro prospero mi hanno stupito per l’entusiasmo e la cura dei dettagli neanche avessero lavorato per casa loro. E’ gente speciale come i collaboratori di Rava Restauro di Torino che hanno ridato vita agli affreschi, e Sintecna, anch’essa di Torino, per la parte strutturale, oltre agli ingegneri di Manital che hanno progettato e realizzato interventi delicati, perché realizzati in un edificio storico, quanto invisibili agli occhi di chi lo frequenta. Sono arrivati nuovi armigeri, senza armi ma con tanta dedizione e passione al lavoro di accogliere e ospitare, capitanati da Emanuele Gnemmi, un novarese i cui antenati probabilmente caracollavano da queste parti l’elmo abbassato, la lancia in resta. Il castello è rinato a nuova vita all’insegna di una vita da godere nella natura, nella ricerca del benessere psichico oltre che muscolare, nella scoperta di un territorio ricco di suggestioni culturali quanto ambientali, nella ricerca di una nuova consapevolezza dello stare al mondo che per uno spirito antico come me è la più bella delle sfide per continuare a essere lo spirito del castello, del Castello di Parella.”

Nel castello che tutti abbiamo sognato - Ultima modifica: 2018-03-30T08:35:15+02:00 da Renato Andreoletti

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