Per passione. Solo per passione

I rifugi alpini d’alta quota sono nati per un turismo elitario e avventuroso, si sono evoluti per rispondere alle esigenze di un turismo di montagna fatto da una massa di alpinisti sempre più cittadini nelle abitudini dove l’elemento femminile, una volta del tutto marginale, oggi è diventato protagonista anche in montagna. Diventati sempre più simili ad albergatori d’alta quota, i rifugisti mantengono quell’alone di romanticismo che solo giustifica un’attività colma soprattutto di sacrifici
I rifugi alpini d’alta quota sono nati per un turismo elitario e avventuroso, si sono evoluti per rispondere alle esigenze di un turismo di montagna fatto da una massa di alpinisti sempre più cittadini nelle abitudini dove l’elemento femminile, una volta del tutto marginale, oggi è diventato protagonista anche in montagna. Diventati sempre più simili ad albergatori d’alta quota, i rifugisti mantengono quell’alone di romanticismo che solo giustifica un’attività colma soprattutto di sacrifici

Leggi anche

Irene e Fabio, Rufugio GilbertiIrene, il marito Fabio (nella foto) e mamma Margherita sono i gestori del rifugio Gilberti a 1850 metri di altezza nella conca della Prevala sotto il monte Canin, nel Friuli, a 100 metri dall’arrivo della funivia che collega Sella Nevea con il massiccio carsico che divide l’Italia dalla Slovenia. Quest’inverno nella conca ci sono stati 16 metri di neve, un metro e mezzo di neve è scesa in sole 24 ore a gennaio 2014. Fabio è un cuoco professionista e i suoi piatti non si scordano facilmente. Le materie prime sono da ristorante stellato: salami affumicati della storica macelleria De Monte di Chiusaforte, formaggio e ricotta della Malga di Montasio e della Malga di Rio Secco, polenta cucinata sullo spolert a legna con un misto di farina cinquantuno e grano saraceno del mulino Floreani di Ospedaletto di Gemona, erbe aromatiche dell’orto del rifugio, aglio della Val Resia presidio slow food, birra artigianale austriaca, vini dei Colli Orientali del Friuli. La qualità è da ristorante stellato, i prezzi sono da rifugio. Che cosa puoi trovare di meglio?
Il rifugio dispone di camerette da due posti e camere con un maggior numero di posti. La doccia calda è sempre a disposizione. Il loro è il rifugio friulano e carnico che è stato maggiormente votato nell’estate 2014 dagli ospiti che hanno aderito al sondaggio online lanciato dal Messaggero Veneto.
Paolo e la moglie Barbara gestiscono il rifugio Padova sotto gli Spalti di Toro nel Cadore Veneto sulle montagne dolomitiche che dividono il Veneto dal Friuli. Sono 18 anni che gestiscono il rifugio: vi stanno allevando i due figli, due monelli di sette e dodici anni. Il rifugio è diventato sempre più casa loro e gli ospiti se ne rendono conto godendo di un’atmosfera realmente familiare. Cucina eccellente, docce calde, camere e cameroni, sculture dentro e fuori del rifugio per l’amore di Paolo per la scultura in legno che ha contagiato molti artisti che lasciano volentieri le loro opere attorno alla casetta dal tetto rosso del rifugio. Vi arriva una stretta, tortuosa, spesso malagevole strada asfaltata che sale dal lago di Centro Cadore in località Domegge. Aprono il rifugio a giugno, a volte entrando dalle finestre del primo piano che spuntano dalla neve (il rifugio è a 1280 metri di quota), lo chiudono a settembre. Lo riaprono a Natale e fino a Capodanno per chi ama arrivarci con le ciaspole o con gli sci. Paolo è stato un rocciatore di classe, è un cuoco altrettanto valido. Barbara è una padrona di casa paziente, tollerante, sempre disponibile.
L’omonima casera del Passo di Cason di Lanza, a 1550 metri, è la conquista di chi ha il coraggio di affrontare la stretta salita asfaltata che collega i comuni di Paularo e Pontebba, in Carnia, al confine con la Carinzia austriaca, con strettoie a una sola carreggiata che si affacciano a picco sul torrente sottostante. L’ideale è salire all’ora di pranzo e scendere partendo prima delle sette del mattino. L’attività principale della casera è l’allevamento delle mucche e la preparazione di burro e formaggi. Alle sei del mattino e alle sei di sera le mucche vengono munte, poi escono a brucare l’erba dei campi. La casera funge anche da agriturismo con camere, alcune dotate di servizi, altre con i servizi in comune. La cucina è tipica: il frico è eccezionale. Burro e formaggi sono fatti a 50 metri di distanza. Il paron, la madre, la nuora Francesca, le zie, gli altri parenti lavorano dall’alba a sera inoltrata. Al passo arriva l’asfalto ma non la luce elettrica (che c’è grazie a un generatore elettrico autonomo) e tantomeno il collegamento telefonico con i cellulari. Se sali in cresta, ti trovi agganciato ai telefoni austriaci. Sei in Italia ma non hai i diritti dei cittadini che vivono in pianura.
La casera di Valbinon, a 1718 metri di altezza, nel Parco naturale delle Dolomiti friulane, non è raggiungibile in altro modo che a piedi. Da Forni di Sopra significa accollarsi 1000 metri di dislivello fino alla forcella dell’Urtisiel a 2000 metri di quota per poi scendere verso la casera con un lungo sentiero a mezza costa che compie una sorta di percorso a ferro di cavallo. Con gambe buone, sono quattro ore di marcia. Sei immerso in un vero paradiso naturale, il truoi dei sclop (il sentiero delle genziane).
I rifornimenti arrivano in elicottero all’inizio della stagione e poi a spalla almeno due volte la settimana. La casera offre 17 posti letto in letti a castello collocati nel sottotetto, al piano terra c’è la cucina a gas e il camino sempre acceso tutte le sere, agosto compreso. L’illuminazione è a lume di candela. Ci sono acqua corrente diaccia, cesso turco con tanto di doccetta mobile per la doccia, sempre con l’acqua a temperatura del torrente da dove arriva per essere decantata in una vasca di contenimento. La gestisce Denis Brecevaz, un simpaticissimo marcantonio di un metro e novanta maestro di arti marziali indonesiane di origini istriane. La palestra dove insegna è a Trieste di cui ha l’inconfondibile parlata. Denis è anche un ottimo cuoco: pochi piatti ma decisamente gustosi. Fino allo scorso anno gestiva la casera assieme a un amico di Forni di Sopra, Mirko, che da quest’anno ha assunto la gestione di un rifugio sopra Forni. La casera di Valbinon è il luogo ideale per lasciare concretamente il mondo alle proprie spalle per qualche giorno. Denis ci sta da giugno a settembre.

I rifugi d’alta montagna
In un Paese, l’Italia, che sembra aver perso il contatto con la realtà, ci sono molti italiani che con la realtà fanno i conti tutti i giorni, i rifugisti. I rifugi di montagna sono nati nella maggioranza tra le due guerre mondiali del 1900 per fornire un punto d’appoggio assai rustico agli alpinisti che iniziavano a scoprire le montagne e a scalarne le cime, aiutati dai migliori bracconieri del territorio che fungevano da guide improvvisate. Contadini e contadine si prestavano come sherpa per portare i pesanti carichi degli alpinisti. I rifugi che si trovavano loro malgrado sulla frontiera alpina tra regno d’Italia e impero austroungarico – in Lombardia, Veneto, Trentino, Tirolo meridionale, Carnia e Friuli – furono utilizzati dai comandi militari di ambo i fronti nei tre anni di guerra (1915-1918) e molti distrutti. Ricostruiti successivamente, la loro gestione era spesso affidata a contadini del luogo che durante la breve stagione estiva garantivano un piatto di minestra e una stufa calda a chi vi si ricoverava. I rifugi del Trentino e del Sud Tirolo si ritrovarono italiani anche se la gestione continuava a essere affidata a volonterosi valligiani locali. Furono le associazioni alpine a promuovere e finanziare la costruzione di gran parte dei rifugi. Il Cai (club alpino italiano) fu fondato a Torino nel 1863 (è stato il secondo dopo quello inglese). Molto attive anche le associazioni alpinistiche dell’impero austroungarico. Perfino il club alpino tedesco promosse la costruzione di rifugi sul versante austriaco delle Alpi che fino alla prima guerra mondiale comprendeva anche Trentino, Tirolo meridionale, Slovenia e parte della Carnia e del Friuli. Nel secondo dopoguerra si affermò l’uso di affidare i rifugi a guide alpine che integravano in quel modo i magri emolumenti legati ai vari lavori che gli permettevano di sopravvivere nel contesto montanaro in cui vivevano: molti erano artigiani o operai.
Ancora negli anni Settanta dello scorso secolo, la maggioranza dei rifugi offriva un’ospitalità assai rude, molto simile spesso al carattere di chi li gestiva: acqua corrente rigorosamente diaccia, spesso nel lavatoio antistante il rifugio, illuminazione a lume di candela o con lampade a carburo, un piatto di minestra o di pastasciutta cucinati sulle cucine economiche alimentate a legna, il riposo nelle camerate comuni su letti a castello con cigolanti reti a molle o su rigidi pancacci in legno. Coperte militari della seconda guerra mondiale per coprirsi, coperte che spesso sapevano della polvere delle origini, niente lenzuola (i sacchi lenzuola non erano ancora stati inventati), sacchi a pelo se se li portava l’ospite. Molti rifugi erano costruzioni in calcestruzzo senza alcuna boiserie di legno (rivestimento ideale per conservare il calore): il freddo dominava sovrano contrastato dai numerosi bicchieri di vino e di grappa che ci si concedeva. Il vino era molto andante come qualità, l’importante che ce ne fosse una robusta quantità. La grappa era decisamente alcolica: durante la prima guerra mondiale era stata utilizzata come stimolante per i fanti che dovevano avanzare allo scoperto contro filo spinato, bombarde e mitragliatrici (solo i nostri, ne morirono quasi 700.000). I servizi igienici di norma erano all’aperto in rustiche baracchette con un pozzo nero a perdere. Se arrivavi al rifugio sottovento, ne annusavi la presenza anche a chilometri di distanza… Era un mondo di operai e contadini, abituati da sempre alla fatica, che non avevano bisogno di allenarsi in palestra per camminare sovraccarichi anche per 10/12 ore e arrampicare utilizzando chiodi e martello. Borghesi come Dino Buzzati vi si muovevano in punta di piedi preoccupati innanzitutto di essere accettati.
Nei trent’anni successivi la montagna ha cambiato pelle, o meglio hanno cambiato pelle coloro che l’affollano d’estate come d’inverno. Proprio a partire dagli anni Settanta lo sport dello sci da fenomeno d’élite è diventato fenomeno di massa, favorito dall’installazione di un numero sempre maggiore di impianti di risalita, a mano a mano diventati sempre più tecnologici, fenomeno esploso anche grazie alla televisione che ha reso popolari i campioni dello sci (basti ricordare Gustav Thoeni, Alberto Tomba e Deborah Compagnoni, icone di ben due generazioni di appassionati). La creazione di una rete autostradale sempre più ramificata che si è spinta fino ai piedi dell’intero arco alpino, da Ovest a Est, accompagnata da automobili sempre più veloci e potenti, ha favorito l’accesso alle montagne di milioni di appassionati, d’estate come d’inverno. E’ mutata soprattutto l’antropologia turistica: operai e borghesi hanno acquisito lo stesso tenore di vita per esempio rispetto all’igiene personale: un’intera generazione di italiani ha imparato ha fare la doccia calda al mattino. Le donne, poche ed emarginate nella montagna di un tempo, sono diventate protagoniste di un’autentica rivoluzione sociale: vanno in montagna in massa, spesso in coppia con un partner maschile, sempre più spesso in gruppi di sole donne, fenomeno tipico del sesso maschile nella fase eroica della montagna. Guai a chi non ne ha tenuto conto. Le donne hanno necessità fisiologiche diverse rispetto ai maschi, hanno una maggiore sensibilità all’igiene ambientale, amano abbronzarsi ed esibire la loro bellezza soprattutto l’estate: addio ai pesanti maglioni di una volta, addio alla trasandatezza del vestire del montanaro. L’industria della moda se ne è accorta prontamente e oggi chi va in montagna è griffato anche più di chi cammina per strada in città. Le donne sono sempre più sexy soprattutto quando si spogliano con la scusa che fa caldo.
I rifugisti hanno dovuto adeguarsi alle nuove richieste: sempre più spesso l’alpinista chiede il trattamento di mezza pensione cui è uso in albergo. In Val d’Aosta l’associazione dei rifugi si è collegata con l’Università di Torino per proporre la sera la cena del montanaro: minestra e pastasciutta come primi (per garantire sia i liquidi che i carboidrati), secondo con contorno, dessert. La mattina, per colazione, spremuta di frutta, yogurt, pane e marmellate, tè o caffè e latte. Sembra di essere in albergo. E’ quel che vuole l’alpinista contemporaneo, il suo predecessore di sole due generazioni fa sarebbe trasecolato.
Le coppie si accontentano di camerette spartane ma riservate, la doccia calda è ormai d’obbligo ovunque. Diversi rifugi si stanno munendo anche di camere con servizi. La cucina è sempre più curata e legata sia alle ricette che ai prodotti del territorio. I rifugi stanno diventando presidi ricettivi di alta quota. In comune con il passato, la passione per un’attività che è assai sacrificata nei guadagni come nello stile di vita. Ci vuole davvero passione, per fare i rifugisti.

L’eccezione del Sud Tirolo
Anche qui il Sud Tirolo si distingue perché la Provincia autonoma ha inserito i rifugi nella Filiera dell’Eccellenza del turismo che ha creato sull’intero territorio. Investimenti agevolati per gli imprenditori e soprattutto investimenti mirati sul territorio hanno facilitato sia l’accesso ai rifugi che le attrezzature di cui costoro possono disporre. Un turismo moderno richiede strutture e infrastrutture moderne ideali per una massa di turisti che vuole qualità e sicurezza, da qui le cucine a induzione elettrica, le porte automatiche all’entrata, le comande prese con i palmari touch screen, i software di ultima generazione per la gestione delle aziende, i gatti delle nevi per facilitare l’arrivo dei clienti d’inverno e mantenere transitabili le vie di accesso, gli elicotteri dotati di cannoni ad aria compressa per pulire le cenge dopo ogni nevicata, la cura delle vie attrezzate e di quelle ferrate d’estate per garantire la massima sicurezza ai turisti. Certo, è venuta meno la poesia e l’avventura in alta quota che è sicuramente maggiore sulle Alpi orientali o su quelle occidentali (piemontesi soprattutto), più selvatiche e a volte anche pericolose, ma è la scelta tra industria e tradizione, la prima capace di creare ricchezza economica e benessere sociale, l’altra destinata a provocare l’emigrazione dei giovani e il dissesto del territorio. Non si può avere tutto.

Per passione. Solo per passione
- Ultima modifica: 2014-08-15T11:18:10+02:00
da Renato Andreoletti

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome

HD – Single Template - Ultima modifica: 2021-09-24T15:19:00+02:00 da Redazione Digital Farm
css.php