Ori Kafri, J.K. Place. La couture dell’ospitalità

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Si dice che i figli, per quanto ribelli, alla fine finiscano immancabilmente per assomigliare ai loro genitori. Viene da pensare che il ragionamento valga anche per l’ospitalità: ascolti Ori Kafri parlare delle peculiarità dei suoi hotel, infatti, e ti scopri a ritrovare le stesse, identiche caratteristiche nella persona che te le sta raccontando. L’umanità al centro di tutto, lo spirito di servizio a renderla evidente in ogni gesto, la cura come comandamento e uno stile che trova ragione nella semplicità, senza per questo rinnegare l’ambizione. E il legame ancestrale tra padri e figli torna anche su un altro versante, se è vero che è dalle iniziali del padre di Ori che prende il nome J.K. Place, il brand di cui il figlio è alla guida. E nasce forse dal mestiere di imprenditore tessile di papà Jonathan anche il ricorrere della moda nelle parole del più giovane dei Kafri. Un concetto che torna spesso, quando deve raccontare la sua idea di ospitalità – più vicina al concetto di couture che a quello di boutique hotel – così come quando si dipinge sarto artigiano dell’accoglienza senza nessuna paura dei grandi marchi. Perché su misura, è un’altra cosa.

Kafri, qual è la parola che meglio racconta l’identità di J.K. Place?
Umanità. Se devo pensare a una parola che racconti davvero di noi, è questa. Che è a sua volta l’insieme di tanti elementi. Oggi l’ospitalità è fatta di alberghi bellissimi, concepiti da designer di fama mondiale e con dotazioni – in termini di arredi e di tecnologie – all’ultimo grido. Hotel pieni di effetti speciali: ma che restano solo delle bellissime scatole vuote, senza anima, se non ci sono dentro le persone a renderli vivi con la passione e l’amore. È giusto che ci siano entrambi gli aspetti, ma se proprio devo scegliere, non ho dubbi: meglio un luogo meno attraente, meno di design, ma più ricco di umanità. Più speciale.

Il brand è presente a Roma, Capri, Parigi e, dal 2024, anche a Milano. E poi? Città o leisure?
Il nostro desiderio è quello di diventare riconoscibili come J.K. Place, nelle destinazioni leisure come in città. Il nostro secondo hotel ha aperto a Capri, in mezzo alle aperture a Roma e Parigi: mi piace pensare di riuscire a diventare un brand globale, che riesca a rendere evidente il proprio mondo ovunque ci si trovi. È per questo che stiamo valutando opportunità di crescita in entrambe le direzioni. Gli hotel cittadini sono più sfidanti e permettono aperture durante tutto l’anno: credo rappresentino il vero lavoro da albergatore, con il loro mix di vacanzieri e businessmen. Persone di cui prendersi cura nell’erogare con precisione ogni servizio, dal momento che chi resta in città solo un paio di giorni ha bisogno di puntualità su colazioni, transfer, appuntamenti, visite culturali. In un resort è tutto diverso, e capita che nel corso di una settimana l’ospite chieda al personale una crema solare o poco più. Ma l’ospite va coccolato e stupito comunque, dalla giornata in barca alla battuta di pesca, fino al cinema sotto le stelle.

Il prossimo passo sarà in Italia o all’estero?
Stiamo guardando ad entrambi gli scenari. Purtroppo o per fortuna, l’apertura di un albergo – rispetto a quella di una boutique o di un ristorante – richiede tempi e processi molto più lunghi, e dall’individuazione di un progetto funzionale servono 3-4 anni per arrivare all’opening. Per questo bisogna guardare in più direzioni in parallelo. Parigi ha rappresentato un tassello fondamentale, perché per noi era importantissimo dare vita a un J.K. Place fuori dall’Italia, per dare corpo a una dimensione internazionale e a un’identità fuori dalle mura domestiche. Essere compiutamente un brand necessita di un posizionamento su più continenti, e neanche la sola Europa basta: bisogna dimostrare di saper fare management in realtà molto diverse tra loro.

Sul tavolo che proposte arrivano con più frequenza?
Destinazioni come Mykonos, ma anche gli Stati Uniti, il Messico, addirittura Sidney. Ultimamente va di moda anche il Portogallo, Lisbona e Porto. Dipende dai momenti storici. Chiaramente, facendo base in Italia, per noi è più facile avere rapporti con chi ha idee di sviluppo o di riposizionamento di un hotel già esistente nel nostro Paese.

Dal tessile della sua famiglia al mondo dell’ospitalità. Come?
È stato un insieme di cose, fatto anche di casualità: nessun disegno. Mio padre ha sempre viaggiato molto, nel periodo in cui bisognava andare fisicamente nei luoghi, per sapere cosa stesse accadendo. O semplicemente per parlare con le persone. Mio padre è stato di grande ispirazione per me, e lo è ancora. A Firenze, da ragazzo, ho scelto di frequentare una scuola a indirizzo turistico-alberghiero. Ma più che a scuola coi libri, mi sono appassionato all’ospitalità attraverso gli stage negli hotel. È stato lavorandoci che ho capito quanto mi piacesse stare di là dal bancone: incontrare ospiti da tutto il mondo, intrattenerli, fare da padrone di casa a Firenze e vedere la soddisfazione nei loro occhi. Ancora oggi mi fa sentire bene dare un servizio: credo che, anche se in maniera molto diversa da medici o infermieri, anche il nostro mestiere si basi sull’aiutare gli altri a stare meglio. Scegliendo con cura il ristorante da consigliare così come l’autista, il negozio, la guida turistica giusti. La cosa bella di questo mestiere è che non ha una routine, non è mai monotono: è uno scambio continuo, con persone che arrivano da tutto il mondo e con vite tutte diverse, con le quali ti confronti per un minuto, mezz’ora o per il tempo di una cena. Vite che poi tornano a trovarti, e diventano amiche.

Oggi quanto intercetta queste storie, nel suo ruolo?
Sono a Capri già da qualche giorno (luglio 2022, ndr), proprio perché sapevo che le 22 camere sarebbero state tutte occupate da persone ormai di casa in questo hotel – repeaters, se vogliamo chiamarle così – e sono qui a fare il padrone di casa. Sono volti che ci frequentano da anni e sono felice, quando posso, di passare del tempo con loro. È piacevole per me quanto per loro, e mi duole solo non riuscire a farlo in ogni occasione, anche con le persone che ci vengono a trovare per la prima volta.

Che ruolo hanno le affiliazioni alle associazioni globali nella capacità di stare sul mercato?
Il nostro è un progetto alberghiero fatto di piccoli hotel: 22 camere a Capri, 27 a Roma, 29 a Parigi. Non arriviamo a 90 camere, quindi queste associazioni non nascono per noi. Diventano importanti per la garanzia che offrono a chi ancora non ci conosce, per percepire il livello di standard, per dare serenità a chi arriva. Senza un network, si rischia che un progetto di boutique hotel italiano – raccontato all’estero – venga confuso con una guest house o un b&b. Anche perché i boutique hotel, che negli Usa hanno firme come quella di Philippe Starck e un design accattivante, diverso, di rottura rispetto agli schemi dell’ospitalità tradizionale, in Europa sono diventati “design hotel”. Una definizione molto più vaga, che abbraccia molte strutture che sono semplicemente piccole e a gestione familiare, ma che non hanno niente – in termini di concept, servizi e cura del dettaglio – del boutique hotel.

E quindi che fare?
Sposo la definizione di un mio amico, il proprietario de La Bottega, che ha creato il concetto di “hotel couture”, derivandolo dal mondo della moda, e che va nel senso di una maggiore sartorialità. Ecco, oggi i J.K. Place potrebbero ambire a essere degli hotel couture. La moda torna anche quando devo spiegare in poche parole cos’è J.K. Place. Four Seasons, Rosewood, Mandarin Oriental sono i Gucci, Prada e Armani dell’ospitalità. Ma se a un certo punto il signor Rossi si stufa persino di Armani e vuole provare un abito su misura, va dal sarto artigiano: e questo è dove noi vogliamo stare. Con un target fatto di viaggiatori esperti, internazionali: persone che hanno già fatto esperienza in varie catene, visto tante cose, e che hanno una forte personalità e sanno decidere dove vogliono trascorrere il loro tempo.

Cosa fa quando non lavora?
Sono sincero: vivo il mio progetto alberghiero, condiviso con il socio Eduardo Safdie, come non fosse affatto un lavoro. Mi diverte e non mi stanca mai. Poi certo, il viaggiare per lavoro diventa immediatamente bleisure, nel mio caso. Ho una moglie uruguayana, la famiglia in Israele e gli States come primo mercato. Viaggiare è all’ordine del giorno, e amo molto conoscere, scoprire cose nuove.

Che rapporto ha con Firenze?
Ci sono nato per caso. Solo con gli anni ci si rende conto della fortuna di nascere in una città che 500 anni fa aveva il meglio delle menti creative di tutto il mondo concentrate in un unico luogo. Un po’ come tenta di fare oggi Dubai. Non è capitato spesso nella storia. Crescendo si assimilano le simmetrie di questa città, si abitua l’occhio a vedere cose che gli altri non vedono. Te ne rendi conto solo quando la lasci, questa città che si gira in mezz’ora, e che non basta una vita per far propria.

Carta di identità
Nato a Firenze da una famiglia di imprenditori nell’industria tessile, Ori Kafri si appassiona fin da piccolo al mondo dei viaggi e dell’ospitalità. Durante gli studi all’Istituto internazionale di Scienze Turistiche matura le prime esperienze in storici 5 stelle e nel 2003, insieme al padre Jonathan, decide di creare qualcosa di nuovo per l’epoca nel panorama di fascia alta: un boutique hotel di 20 camere nel cuore del capoluogo toscano. Nasce così il primo albergo firmato J.K. Place, rimasto sotto l’egida del brand fino a dicembre 2020. Pochi mesi dopo, Jonathan e Ori Kafri entrano in società con Eduardo Safdie e sua moglie, proprietaria di hotel iconici a Capri, che decide di trasformarne uno nella seconda struttura del marchio, inaugurata nel 2007. La formula vincente prosegue nel 2013 con l’apertura del J.K. Place Roma e a gennaio 2020 con la prima avventura su suolo internazionale: il J.K. Place Paris. A dicembre 2021 è stata annunciata la nuova apertura di J.K. Place Milano prevista nel 2024.
Ori Kafri, J.K. Place. La couture dell’ospitalità - Ultima modifica: 2022-09-26T12:16:54+02:00 da Gianluca Miserendino

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HD – Single Template - Ultima modifica: 2021-09-24T15:19:00+02:00 da Redazione Digital Farm
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