Nel vocabolario di Nicola Migheli ricorre spesso il concetto di gratitudine, nei confronti delle persone come della vita. E la gratitudine, si sa, è un fiore che nasce nella terra buona dell’umiltà. Da pochi mesi managing director di Rosewood Castiglion del Bosco, questo sardo gentile trapiantato a Montalcino è – a maggior ragione – un manager alberghiero “tristellato” sui generis e senza traccia di superbia, che ha scoperto l’ospitalità sulla tavola imbandita della nonna e che ha voluto scientemente salire uno a uno i gradini della professione, per sentirla davvero sua. Tanto che oggi, per raccontare la passione che ne anima i gesti e i giorni, non serve indugiare sulle pur preziose “tre chiavi” riservate alla sua struttura dalla Guida Michelin. Che prima dell’io viene il noi, e prima della celebrazione dell’oggi il disegno del domani. E con esso il desiderio di creare ricordi indelebili per chi arriva e chiede territorio, autenticità, emozione. E sa che li troverà.
Come ha scoperto il mondo dell’ospitalità?
L’ho respirata fin da piccolo, nella convivialità autentica delle grandi tavole imbandite dei pranzi di mia nonna a Santa Giusta, il mio paesino nell’oristanese. E ancora oggi guardo all’accoglienza con gli stessi occhi di quel bambino. In Sardegna l’ospitalità è nel sangue e l’ho sempre sentita molto “mia”, così dopo il liceo ho scelto di studiare Economia del Turismo, alternando gli inverni trascorsi in aula con le estati passate a fare le “stagioni” nelle strutture del cagliaritano. È stato proprio facendo pratica che mi sono definitivamente innamorato di questo mestiere.
Da lì tante esperienze in curriculum. Quale la più importante?
Il Forte Village, senz’altro. È stata un po’ la mia scuola, il luogo dove ho iniziato e dove mi è stata data l’opportunità di conoscere tanti reparti. Da cameriere, in dieci anni sono diventato responsabile del f&b. Un compito davvero complesso: per cinque anni ho coordinato oltre 350 professionisti, e questo è un qualcosa che forma moltissimo e che fa comprendere l’importanza della squadra, delle persone e dei loro singoli gesti, qualsiasi sia il loro ruolo.
E lei di ruoli ne ha ricoperti davvero tanti.
Sì, è stata un’altra mia fortuna. Per la mia carriera ho scelto di procedere volutamente un gradino alla volta, per la voglia di comprendere fino in fondo il funzionamento di ogni settore. Al Forte mi sono occupato anche delle camere e – come executive assistant manager – delle spa, del Kids club, dei task del leisure come di quelli legati al congressuale. Non mi sono fatto mancare importanti esperienze all’estero, a Londra e a Dubai, e nel 2011 ho partecipato a una fase-chiave dell’avviamento di Borgo Egnazia, ricoprendo il ruolo di direttore degli eventi e di direttore rooms, con l’obiettivo di supportare il pieno avvio della struttura. In ciascuna esperienza, in ciascun reparto, ci ho messo la stessa passione e la stessa voglia di imparare. È il bello di questo lavoro: e oggi, che coordino tante persone, posso comprenderne le difficoltà ed essere utile in situazioni che ho toccato io stesso con mano.
A Rosewood Castiglion del Bosco il suo primo ruolo di direzione generale.
Sì, dopo due anni da hotel manager trascorsi a occuparmi della parte operativa e di progetto della struttura, ho il privilegio di continuare questo percorso come managing director. È una scelta di continuità che mi onora.
Qual è la prima cosa che cambia, ad essere il “numero uno” in struttura?
Cambiano un po’ i task della giornata, oltre che il senso di responsabilità verso Castiglion del Bosco e verso chi ci lavora. Già era ai massimi livelli, per me, ma adesso so di essere la prima persona a dover garantire per la struttura, per il suo legame con il territorio, per il disegno del suo futuro. Continuo a interessarmi di ogni aspetto dell’operatività, dall’incontro con gli ospiti allo stare al fianco del personale, fino all’ideazione e alla cura dei servizi, già esistenti o ancora da inventare.
Su che fronti è migliorabile una struttura tre chiavi Michelin?
Castiglion del Bosco è un luogo fortemente legato al suo territorio e alla Toscana, con la naturalità del servizio e l’autenticità dell’esperienza come stelle polari. La visione di Rosewood, che sposo perfettamente, è quella di immaginare un futuro dove luoghi e persone si arricchiscano reciprocamente. E se oggi Castiglion del Bosco è un’eccellenza, in questo, domani deve continuare a esserlo, valorizzando ogni giorno di più il territorio e quanto di bello può regalare a chi arriva.
È per questo che non smettiamo mai di immaginare nuove esperienze da aggiungere al nostro bouquet che mettano in relazione il resort con tutto ciò che lo circonda. Qui gli ospiti si trovano a fare la caccia al tartufo, o a osservare i gesti sapienti dell’artigiano che fabbrica per loro dei sandali. O ancora, li rendiamo protagonisti della domenica nel villaggio, con tutto il borgo medievale in festa e imbandito. Esperienze uniche e niente affatto standardizzate, perché profondamente autentiche.
In fondo il lusso è questo.
Il lusso è un concetto estremamente personale e che cambia nel tempo, ma senz’altro – in un mondo dove i beni materiali sono sempre meno esclusivi, e dove un letto comodo e un buon pasto sono dati per scontati – a dare senso al lusso è la personalizzazione dell’esperienza. E qui cerchiamo di capire cosa cerchi l’ospite ancor prima del suo arrivo, ritagliando intorno a ciò che muove il suo sentimento il soggiorno più vicino ai suoi desideri.
Noi albergatori siamo veramente ambasciatori del territorio, e a viaggiatori che non cercano più solo il comfort, ma il luogo e ciò che lo rende unico, è importante regalare autenticità. Come dico spesso, noi siamo commercianti di ricordi. Noleggiamo camere, certamente, ma al centro ci sono l’esperienza e la memoria che essa diverrà per le singole persone. Bisogna riconoscere gli ospiti e farli sentire a casa, pur lontani da casa.
Che ruolo hanno gli ospiti italiani, nella stagione del resort?
Quello italiano è un ottimo mercato, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, come quello pasquale o natalizio, per il quale apriamo da diversi anni con ottimi risultati. Come tutta la Toscana, la quota maggiore va agli Stati Uniti, ma quello interno è un mercato in crescita, anche perché la Toscana è una regione che si fa vivere in diversi momenti dell’anno. A prescindere dalla nazionalità, i nostri sono ospiti molto consapevoli, che arrivano qui sapendo bene cosa questo territorio sa offrire.
A partire dal Brunello di Montalcino.
Certo, l’intera Toscana ha un link diretto col mondo del vino, e noi abbiamo la grande fortuna di poter contare su una cantina in proprietà, che è tra le fondatrici del consorzio del Brunello e che ha sviluppato un grandissimo hospitality. Sono bravissimi nella discovery del vino come nei tasting, oltre che nelle esperienze in cantina.
Qual è il valore aggiunto di Nicola Migheli?
È difficile rispondere. Penso di essere stato fortunato, nella mia carriera. Ho voluto investire su me stesso percorrendo la strada più lunga, trovando persone che hanno creduto in me e che mi hanno dato tanto. Credo che il mio valore aggiunto stia proprio nella voglia che ho di restituire: un’intenzione che mi rende molto caro il concetto di squadra e la valorizzazione dei talenti. Mi piace ascoltare, capire e lasciare spazio, ma sempre pronto a dare una mano. Credo molto nel “management by example”, e quindi mi piace essere percepito come qualcuno che nel momento del bisogno sa sporcarsi le mani, anche per il lavoro più banale.
In cosa può migliorare l’ospitalità italiana?
L’Italia è una realtà fortunata per ambiente, clima, storia, cultura e paesaggio, e molte strutture ricettive sono ben connesse con la realtà del loro territorio: siamo stati bravi nel fare sistema e nel diversificare, con sfumature di ospitalità che permettono a un resort e a un agriturismo di coesistere in pochi chilometri. Il punto sul quale dobbiamo continuare a lavorare è la formazione. Qualche passo avanti è stato fatto ma non bisogna smettere di investire sul futuro dell’ospitalità, a livello istituzionale ma anche nel privato, a partire da noi albergatori, come accade con l’iniziativa che ci lega alla Luiss Business School, con progetti reali affidati agli studenti. L’obiettivo deve essere quello di far percepire ai giovani il turismo per quello che è, ovvero un’arte, e non un piano B.
Lavorare a Castiglion del Bosco l’ha resa un buon golfista?
Sto imparando, mi piace molto, ma sono ancora agli inizi. Sono un appassionato di calcio, juventino anomalo, che tifa per tutte le italiane quando giocano in Europa. Nel tempo libero amo molto cucinare per gli amici, per la famiglia, per mia moglie e mia figlia. È un’attività che mi rilassa, un modo per prendersi cura delle persone senza dover dire niente. E poi amo viaggiare, non tanto per far collezione di luoghi ma per ispirarmi e per comprendere le culture e le vite degli altri. E poi cerco di passare più tempo possibile con mia figlia Olivia, che ha otto anni, e mia moglie Nina.
Le tavolate della nonna ieri, l’atto d’amore di cucinare per gli altri oggi. Quale piatto le riesce meglio?
Ultimamente mi sto dilettando con il mondo della pasta fresca, ma in generale amo molto il concetto di “mystery box”: mi diverto ad aprire il frigo e a cucinare con quello che trovo. Della cucina toscana mi riesce bene l’aglione, e provo a riprodurre i piatti legati al territorio ideati da quel vulcano di idee che è il nostro chef Matteo Temperini. I risultati magari non sono gli stessi, ma l’importante è lasciarsi ispirare, sempre.
