Un grande filosofo esistenzialista amava dividere il mondo in due categorie, tra quelli che cercano il senso della vita senza mai trovarlo e coloro che l’hanno trovato pur senza cercarlo. A dar per buono l’assunto del pensatore, viene da credere che Diletta Guarino appartenga senz’altro alla seconda schiera. Per le parole con cui sceglie di dar forma ai pensieri. Per il carico di senso che affida loro. E per la capacità di celebrare lo sguardo e la felicità degli altri. Da pochi mesi general manager del Six Senses Zighy Bay, resort nella lontana penisola settentrionale di Musandam, in Oman, Guarino è una figlia di Roma approdata in Medio Oriente per volontà e per istinto, dopo vent’anni nell’ospitalità iniziati da ragazzina. Inseguendo non il potere ma l’oceano mare, che non vuole title job né linee di confine. Come lei, che a “governare” ci è arrivata a piedi nudi, pur da appassionata di scarpe qual è. E che ora vive con lo sguardo altrettanto scalzo, come dovrebbe essere sempre, quando in gioco c’è il cuore. In qualunque lingua esso sia.
Da dove è nata la sua passione per l’ospitalità?
Il turismo, nel destino della mia famiglia, c’era già: aveva soltanto saltato una generazione. Mio nonno era emigrato a Roma da Napoli, e faceva la guida turistica. E oggi i suoi nipoti – io e mio fratello – lavoriamo rispettivamente nell’ospitalità e nella ristorazione. Mio padre, invece, col turismo non ha mai avuto a che fare: ha passato una vita in mezzo alle automobili, mentre mia madre ha scelto di smettere di lavorare nel momento della mia nascita. Ma è lei l’artista di casa. Destini familiari a parte, la ragazzina del quartiere San Giovanni che ero non aveva idee precise sul suo futuro. Più tardi sarebbe arrivata una vera e propria passione per l’hôtellerie, che ha portato con sé scelte di vita importanti. Guardandomi indietro, avrei potuto fare anche altre cose, forse. Certamente un ruolo l’ha avuto anche il caso.
In che modo?
Mentre studiavo al Tecnico Commerciale frequentavo una scuola di inglese, e al momento del diploma i miei genitori mi suggerirono un soggiorno in Inghilterra per imparare meglio la lingua, prima di tornare per frequentare l’università. Così andai a Londra e trovai un impiego da Burger King, ma una settimana di patatine fritte mi convinse a smettere. Fu un ragazzo italiano del mio stesso ostello a suggerirmi di presentarmi all’hotel dove lavorava, l’Hilton London Metropole, perché cercavano persone per il bar. Io parlavo un pessimo inglese, e puntavo a un posto nella squadra delle pulizie. Invece mi destinarono a fare la cameriera al piano bar. Mi trovavo bene, anche se a rubarmi l’occhio era sempre il front office: mi sembrava il centro del mondo, era il luogo dove tutti passavano e dove ogni problema trovava una soluzione. Rimasi a lungo, facendo carriera come solo all’estero si riesce a fare.
Poi però è tornata in Italia.
Sì, a segnarmi fu una brutta esperienza londinese, un’aggressione armata in strada. Decisi di tornare in Italia, era il 2001 e c’era appena stato l’11 settembre: il mondo del turismo non era più quello di prima. Trovai un lavoro allo Sheraton di Roma, dove sarei poi rimasta tanti anni. Facevo i turni di notte alla reception e di giorno andavo all’università, dove mi sono laureata in Gestione dell’ospitalità e in Gestione delle risorse umane e servizi. La strada era segnata.
Poi sono arrivate le esperienze nei resort internazionali alle Maldive. Qual è la prima differenza che le viene in mente fra il lavorare in un hotel e in un resort?
Gli hotel sono meravigliose costruzioni fatte di camere confortevoli, ristoranti, servizi. Ma fuori dalle loro mura c’è la vita, che accade e che bisogna andare a scoprire. I resort, invece, sono delle destinazioni in sé. Sono microcosmi capaci di contenere per intero un mondo e il senso di un viaggio. C’è la natura e la tecnologia, l’avventura e la coccola, la spiaggia e la spa. Avere il privilegio di dirigere un luogo del genere significa diventare il sindaco di un piccolo paese; nel nostro caso da mille abitanti, tra ospiti e staff. Il tuo compito è quello di garantire a tutti un’esperienza fantastica, e ne senti la responsabilità in ogni aspetto, dalla necessità di avere sempre l’energia elettrica a disposizione alle provviste d’acqua, che nel nostro caso arrivano esclusivamente dal mare. Sei responsabile di due ecosistemi altrettanto importanti: quello degli ospiti, il front of the house, e quello dei dipendenti, il back of the house.
Nel comunicato che annunciava la sua nomina, Six Senses ha messo in evidenza il suo rapporto con la natura e il suo spirito compassionevole verso ogni creatura.
Mi sento davvero molto vicina alla natura, a questo delicato equilibrio che c’è tra noi e l’ambiente che ci circonda. E mi sento vicina ad ogni essere vivente, qual che esso sia. Comprese le caprette nostre vicine di resort e i 36 gatti che ospitiamo. Oltre, ovviamente, al mio cane Olivia, di cui adesso si prendono cura i miei genitori perché è “vecchietta”.
Le vengono riconosciute grandi doti di leadership. Che idea ha del concetto?
Ho provato imbarazzo di fronte alla mole di commenti positivi che sono scaturiti al momento della mia nomina. Non sono abituata a tutto questo. Sulla leadership posso dire soltanto due cose, che ho imparato negli ultimi vent’anni di ospitalità e che non scordo mai. La prima è che, quando sei la persona di riferimento, il team ti osserva sempre, qualunque cosa fai, anche quando sembrerebbe di no. Le persone guardano come sorridi, come utilizzi il linguaggio del corpo, quale tono di voce scegli di usare.
E la seconda?
Ho imparato che ogni essere umano ha bisogno di essere ascoltato e di sentirsi compreso. E questo vale ancor più quando sei lontano da casa e dalla famiglia, come tutti noi, qui. Abbiamo nazionalità diverse, background diversi, religioni diverse. Avere sempre tempo per chiunque si presenti alla porta del mio ufficio è la regola delle mie giornate. So che può suonare retorico, ma ci credo davvero. Il mio nuovo ruolo prevede che io abbia un’assistente, e non amo il fatto che adesso le persone si fermino da lei prima di venire da me. La mia porta è sempre aperta, e nessuno deve mai sentirmi come inaccessibile, perché sono solo una parte del team, come chiunque altro qui. Con un job title e un ruolo ben precisi, certo. Ma che non mi definiscono. Io non sono “la general manager”. Io sono Diletta: questo sì che racconta chi sono.
Qual è la prima caratteristica di Six Senses, ai suoi occhi?
È una compagnia che ha dei valori che trascendono. È il verbo più giusto, secondo me. Perché sono valori che trascendono le regole del lusso e anche quelle dell’ospitalità, per diventare valori di vita.
In che senso?
In Six Senses tutto è collegato a chi sei e a come vuoi vivere il tuo tempo. Faccio un esempio: quando vado ad accogliere i nuovi ospiti sono sempre scalza. E il primo invito che faccio a chi arriva è di fare la stessa cosa. A togliere le scarpe. È un invito ad essere se stessi nella forma più autentica. A tornare come da bambini, quando si hanno occhi solo per ciò che ha davvero importanza: incantarsi al cinguettio degli uccellini, dimenticare tutto ciò che si è lasciato a casa, connettersi con la natura e con la terra. A piedi nudi. È per questo che qui non abbiamo alcun dress code, nessuna necessità di truccarsi o di comportarsi in un certo modo. Si può, semplicemente, essere. E non credo esista lusso più grande di questo.
Crede che sia possibile un lusso davvero sostenibile?
Abbiamo una grande attenzione su questo tema, e tutti gli acquisti passano attraverso il nostro sustainability team, che verifica se l’azienda dalla quale stiamo ordinando è certificata in tal senso. I samples vanno nella nostra compost machine, per verificarne l’effettiva sostenibilità, e se un prodotto possa tornare alla terra. Il food waste va invece alla farm nostra confinante, e diventa cibo per le caprette. Sull’acqua, come detto, ci approvvigioniamo dal mare con desalinizzatori e depuratori, senza alcuna plastica. Per l’energia invece dipendiamo dal main land, ci arriva dall’Oman.
Qual è l’elemento più sfidante del Paese che vi ospita, e quale la sua più bella caratteristica?
Quello più sfidante è l’educazione, in termini di istruzione di base. Mi riferisco alla penisola di Musandam che ci ospita, che è divisa dall’Oman propriamente detto ed è completamente circondata dagli Emirati Arabi. Questo territorio è svantaggiato rispetto al main land, che ospita università internazionali e ha cittadini mediamente molto istruiti e che parlano benissimo inglese. Questa enclave ha invece un’economia basata sulla pesca, e i bambini non sempre vanno a scuola. Di conseguenza, non avendo un’educazione, la mentalità ne risente. È una cosa sulla quale lavorare, e noi cerchiamo di fare la nostra parte, destinando a progetti scolastici ed educativi una parte del nostro revenue. Abbiamo una responsabilità nei confronti di queste persone, che non può limitarsi a produrre ricchezza.
La cosa che più l’ha colpita del Paese?
L’Oman è un Paese molto aperto. In qualche modo io ne sono l’esempio, da donna europea a capo di un resort così importante. Il mio compagno è maldiviano e musulmano, quindi ho imparato da tempo a riconoscere e praticare il rispetto verso Paesi, culture e religioni che non ci appartengono. Per non parlare del fatto che è un Paese bellissimo, e che gli omaniti sono di una gentilezza incredibile. E non di maniera: è vera gentilezza d’animo, la loro.
Come italiani, qual è la cosa che dovremmo imparare nel fare ospitalità?
Credo che avremmo molte cose da imparare dall’ospitalità asiatica. Per loro l’ospitalità è qualcosa che arriva dal DNA, è parte della loro cultura da quando vengono al mondo. Soltanto vivendoci dentro si percepisce quanta naturalezza ci sia nel loro approccio verso chiunque, e non soltanto nei confronti dell’ospite che arriva in albergo e paga. È un atteggiamento che scorre dall’uno verso l’altro. Mettere insieme questa intenzione con il portato culturale e con la bellezza che noi europei siamo stati e siamo in grado di produrre darebbe vita a una combinazione incredibile.
La sfiora mai la possibilità di tornare a lavorare nel Bel Paese?
Non credo di tornare. Intendiamoci: mi sento italiana e romana fino all’ultima goccia di sangue. E per me è una gioia vedere arrivare qui ospiti italiani: sono allegri, sanno badare alle cose importanti e guardare oltre rispetto ai piccoli problemi. Io stessa sono felice quando torno a casa. Ma solo in vacanza. Tornare nel traffico delle città per me non è più un’opzione. E poi i miei vengono a trovarmi, e il mio compagno vive a Dubai. Sono solo due ore di viaggio da qui.
Allora, da romana, è come se si fosse fidanzata con un napoletano, a due ore di distanza. Ma più in grande.
Esatto. Ed è la relazione perfetta, così (ride). La verità è che vorrei fare tante cose, ma il mio problema è il tempo. Quando torno nel mio piccolo appartamento sono le 21:30, dopo giornate iniziate alle sette la mattina. Tempo di una telefonata con il mio compagno e una con la mia famiglia, la cena, e non resta molto, a parte qualche serie tv su Netflix. Dovrei trovare più tempo per me stessa, anche perché lavoro per un brand che mi permette di farlo ed è una cosa che io suggerisco agli altri e meno a me. Però nei miei giorni di riposo vado al mare, ascolto la musica, leggo un po’. E passeggio in riva al mare. A piedi nudi.
Altre passioni?
Amo molto il mondo della moda e in particolar modo quello delle scarpe. E non mi piace soltanto acquistarle. Adoro disegnarle, tanto da desiderare una mia collezione. Ma da dove iniziare, dal momento che ho fatto sempre studi relativi al mio lavoro? Ebbene, tempo fa ho deciso di seguire – la sera tardi, dopo il lavoro – due corsi online di una scuola di design di Milano. E ho iniziato a dare forma alle mie idee, scoprendo però che il passaggio dal disegno all’oggetto vero e proprio non è affatto semplice. Ma non demordo. C’è tutto: il brand, il target, il nome… Mancano solo le scarpe.
Il nome del suo brand? “Diletta G.” non suona male…
Sono orgogliosissima della mia scelta (ride). Il mio brand si chiama “Core”. Da leggere in inglese, certamente. Ma anche, e soprattutto, nel senso romanissimo del termine, dove sta per cuore. E non credo esista nome migliore.