Francesco Cefalù, l’italiano di Mandarin

Dopo un percorso professionale in altri settori, Francesco Cefalù ha scoperto l’hotellerie. E oggi, anni dopo, è alla guida dei piani di sviluppo di Mandarin Oriental. Tra lavoro, famiglia, libri, sport e film (rigorosamente anni ’70), il manager racconta il suo mestiere e le strategie di uno dei brand più luxury che c’è
Dopo un percorso professionale in altri settori, Francesco Cefalù ha scoperto l’hotellerie. E oggi, anni dopo, è alla guida dei piani di sviluppo di Mandarin Oriental. Tra lavoro, famiglia, libri, sport e film (rigorosamente anni ’70), il manager racconta il suo mestiere e le strategie di uno dei brand più luxury che c’è

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Se gli chiedi quale sia il suo “libro della vita”, Francesco Cefalù ti risponde “Il Conte di Montecristo”. E non sorprende. Perché – come il trasformista di Dumas – anche il neo-Chief Development Officer di Mandarin Oriental è uno di quegli uomini talmente innamorati da non aver mai permesso agli orologi di compiere in pace il loro cammino. Traluce tra le sue parole, quella passione. Che però non è mai caotica o un tanto al chilo. Bensì distillata, e destinata a due calici fratelli: uno per il lavoro e l’altro per tutto ciò che rende la vita degna di tal nome. L’italiano al centro dello sviluppo di uno dei brand più celebrati del mondo è un compatriota da esportazione, figlio di Milano e con un DNA da Due Sicilie. Ma dell’italiano medio ha molto poco, se non l’amore per la famiglia e il tifo per la Vecchia Signora, temperato dall’esser riuscito a comprendere persino le oscure regole del football americano. E da un amore per il bello che gli permette di immaginare i luoghi futuri di Mandarin Oriental, anni prima che essi siano. Ma senza esagerare con le certezze, che a far troppi programmi si rischia di perdere l’agenda. O che ti arrivi addosso un destro di Tyson.

Com’è arrivato all’hôtellerie?
Il mio approdo al mondo dell’ospitalità è stato il frutto di un cambio di rotta, dopo un percorso professionale molto lontano da esso. Nessuna vocazione innata, insomma, anche se da bambino gli hotel mi affascinavano. All’hôtellerie ci sono arrivato con il tempo: e oggi ne sono conquistato. Ma ero partito in tutt’altro modo. Sono nato a Parigi da padre di Erice e madre dell’avellinese, e ho vissuto dai 3 ai 22 anni a Milano studiando Economia aziendale alla Bocconi e lavorando per diversi anni nel settore dei beni di consumo, in aziende come Procter & Gamble e Sony. A cambiare le cose è stato un master biennale della Harvard Business School, che ho frequentato con l’idea di rimanere negli Usa a lavorare in altri settori: fu allora che cominciai a guardare con interesse all’industria alberghiera.

Cosa le piaceva del settore, sulla carta?
Mi intrigava la sua parte di development, che è una bella combinazione di immobiliare da real estate e business vivo, più che in altri settori. Così sono entrato in Starwood, sempre col development come area di attività, e poi in Hilton, per sei anni, tra Londra, un breve periodo in Italia e tre anni in Brasile. Dopo quest’esperienza, ho lavorato per tre anni in Four Seasons, da responsabile development per l’Europa. Infine, l’approdo in Mandarin Oriental: per i primi sei anni e mezzo sono stato responsabile sviluppo e investimenti per Europa, Medio Oriente e Africa. E ora, da aprile di quest’anno, ho un nuovo ruolo con responsabilità globale. Una prova che nella vita ogni tanto capita di avere la fortuna di reinventarsi, di misurarsi in contesti professionali inediti e di trovarcisi dentro tanto bene da starci già da quindici anni senza accorgersene.

Che mestiere è quello di essere a capo del development globale di un brand del calibro di Mandarin? Tanta responsabilità…
Chi, come me, è cresciuto tra gli anni ’80 e i ’90, sa bene che di Maradona – l’uomo che vinceva le partite da solo – ce n’è stato soltanto uno. Tutti gli altri devono cooperare, sempre. Intendo dire che il mio è un lavoro di team: gestisco una squadra che è responsabile della crescita del nostro core business, che identifica e conclude accordi, per la gestione di alberghi e residenze di lusso in tutto il mondo.

La stella polare resta quella del management.
Esatto, non facciamo franchising perché pensiamo che nel lusso non abbia senso. E poi gestiamo anche la parte degli investimenti, anche se come compagnia non abbiamo più fatto investimenti diretti in nuovi progetti dal 2015. Il focus principale è il management. Ci sono tre dipartimenti chiave che rispondono a me: il primo è quello del development, cioè le persone responsabili degli accordi commerciali, i deal maker. Ne facevo parte anch’io fino a poco tempo fa: sono coloro che identificano le opportunità, trovano gli investitori, lavorano con loro, chiudono gli accordi, danno la visione del progetto e selezionano i consulenti chiave, come i disegnatori di interni, gli architetti… Poi c’è l’area feasibility, che fa analisi finanziaria e fattibilità, perché come compagnia si ha la necessità di fare proiezioni finanziarie per verificare come può funzionare un hotel. Infine c’è la componente residenziale, che è importantissima: anche se in Italia è ancora relativamente limitato, il mercato di residenze di lusso con marchi gestiti da operatori specializzati del settore come Mandarin Oriental sta crescendo molto, a livello globale.

Quanto passa tra un’idea che arriva sul tavolo e l’apertura di un hotel?  
Tanto tempo. La caratteristica più importante che bisogna possedere in questo lavoro è la persistenza. Avevamo fatto uno studio nella mia compagnia precedente: in media nel lusso questo tempo, dal momento in cui si identifica un’opportunità all’opening, “pesa” tra i sei e gli otto anni. Poi capitano alcune situazioni più rapide, come per esempio è avvenuto per il Mandarin Oriental, Lago di Como, che è stato un caso particolare: in sei mesi c’è stata l’acquisizione, la negoziazione del contratto e Mandarin Oriental è arrivata a gestire. Ma normalmente si mette in preventivo un periodo di almeno quattro o cinque anni.

Quali sono gli aspetti della filosofia di MO che sono irrinunciabili in destinazioni così diverse fra loro?
Per la definizione di lusso si parte sempre dal dizionario. Cos’è il lusso? L’esorbitanza delle normali comodità, il non necessario. Che, per definizione, deve essere speciale. È l’unicità, il su misura. Altri modelli di sviluppo alberghiero sono basati sul concept di realizzare lo stesso hotel a Santiago, a Tokyo, a Milano. Il nostro è molto lontano da questa filosofia. Ci interessa offrire agli ospiti un’esperienza non replicabile, non solo per una questione di vision della compagnia ma per garantire l’eccellenza al nostro World of Fans. Senza dimenticare l’heritage del marchio. E poi l’unicità è anche una “protezione”. Mi spiego: preferisco mercati dove non si riesce a sviluppare tanto proprio perché si ha la possibilità di creare asset unici. È il miglior antidoto contro l’inflazione da troppo prodotto. Quando hai un asset particolare, che poi si traduce nel servizio, nell’offerta gastronomica, nell’offerta di wellness, nella sostenibilità, ti stai differenziando.
Il punto di partenza è sempre pensare a cosa desiderino i clienti, perché non si può decidere per focus group: bisogna sfruttare l’intuizione, capire cosa può funzionare e creare qualcosa che sia significativo nel 2030, e non solo adesso.  

Ad oggi Mandarin ha 37 hotel nel mondo, e due in Italia, con Cortina e la Sardegna in pipeline. A quando la discesa per lo Stivale?
L’Italia, con il Giappone, è la destinazione top del lusso mondiale nell’ospitalità: offre almeno dieci destinazioni di altissimo profilo e con tariffa media nel top di gamma oltre i 700-800 euro. Per noi è fondamentale crescere in Italia e continueremo a farlo. Non possiamo prescindere dall’idea di entrare nelle altre tre grandi città: Roma, Firenze e Venezia. Ma vogliamo arrivare anche nella campagna Toscana, in Sicilia, in Puglia e possibilmente in altri territori. Il nostro Paese dà l’opportunità di scoprire destinazioni sempre nuove. Se ci pensiamo, dieci anni fa chi conosceva la Puglia, a livello mondiale? Non era sulla mappa del mercato del lusso. E adesso viene annunciato un progetto quasi ogni anno. 

Ci sono destinazioni che hanno le potenzialità di essere la “nuova Puglia”?
Tante. Il lago di Como è meraviglioso, lo sappiamo, ma il Maggiore, secondo me, ha relativamente poco da invidiargli. C’è l’Umbria, e c’è Napoli, città che amo e che ha tutto per essere al pari delle altre quattro grandi: certo non ha l’heritage di Roma o l’unicità di Venezia, ma è un posto fantastico, che per varie ragioni non ha avuto l’offerta alberghiera che merita. Ma sta crescendo. Forse il mercato non è ancora del tutto maturo, ma a noi piacerebbe essere parte di questo futuro.

La Sicilia può sviluppare altre aree luxury oltre a Taormina, o ha ormai vinto il turismo di massa?
Le cose possono cambiare, specie nelle isole grandi dove c’è grande spazio: a Maiorca, che era per definizione il turismo di massa, abbiamo fatto un progetto con grandi ambizioni di lusso, così come Four Seasons. Quanto alla Sicilia, Taormina è meravigliosa e ha un ecosistema, sta beneficiando anche dell’effetto-White Lotus, che ha aiutato a renderla ancora più parte dell’immaginario popolare. Credo che il Sud-Est della Sicilia sia forse ancora più bello: Siracusa, Ragusa, Noto… posti incredibili! Sarebbe bello se l’aeroporto di Comiso venisse sviluppato di più, se l’infrastruttura a livello di strade fosse più semplice per arrivare da Catania e da Comiso. Nel lusso siamo meno dipendenti da queste tematiche, specialmente nei resort dove le persone vanno per una settimana, e quindi sopportano bene un’ora e mezza di macchina. Sarebbe diverso se si cercasse di portare 3.000 persone, ma non è quello che facciamo noi. Piuttosto, è difficile trovare un progetto con gli spazi giusti e le giuste caratteristiche. A noi piacerebbe fare progetti in quella zona. Prima o poi ce la faremo, ma ci vuole tempo. 

Quando si toglie la giacca da CDO, cosa le piace fare? 
Amo molto il mio lavoro, ne sono appassionato e mi dà l’opportunità di visitare posti meravigliosi in tutto il mondo. Ma ho le mie priorità, ben chiare: nel mio caso sono mia moglie e i nostri tre figli, di dodici, sei e due anni. Ho la fortuna di avere tanti interessi. Sono un grande appassionato di cinema, di letteratura, di musica, di sport: da italiano seguo Formula Uno e calcio, tifo Juve. Ma più ancora mi appassiona il football americano.

Sto parlando con l’unico italiano che ne ha capito le regole, quindi.
Sembra gente che si vuole ammazzare, ma in realtà è uno sport molto simile agli scacchi, è molto particolare. 

Perché la Juve?
Mio nonno era tifoso del Torino, mi portarono allo stadio nel lontano ‘84 a vedere Juve-Toro con la maglia granata addosso, solo che nella Juve giocavano Platini e Boniek… insomma, il me bambino scelse i più forti.

Ha un “libro della vita”? 
Il libro che ho più amato è Il Conte di Montecristo: l’ho riletto negli anni e rappresenta molto bene la mia visione del mondo e della vita. Ma me ne sono piaciuti tanti. Ecco, posso dire cosa non amo: i libri che parlano di business o di self help.
La vita è corta e abbiamo tanti grandi autori, e preferisco imparare da loro piuttosto che da uno che mi dice come mi devo comportare nei successivi 60 minuti. Quanto al cinema, sono appassionato dei film degli anni ‘70. Ce ne sono tanti di belli, ne faccio più una preferenza di periodo storico. Era un momento molto particolare della storia americana, con tanti conspiracy movies: I tre giorni del Condor, The Parallax View, Il cacciatore… Veri capolavori.

Quando si dice trovare un equilibrio tra vita privata e lavoro. Non solo bleisure, ecco.
Il lavoro è importante, è una parte troppo rilevante della nostra vita per trascorrerla senza divertirsi. Ma non può essere tutto. Anche perché, quando diventa tutto, poi alcune cose non riesci più a controllarle. Uno dei miei aforismi preferiti è di Mike Tyson. In un pre-match, il suo avversario Evander Holyfield disse a tutti che aveva un piano per batterlo. E quando chiesero a Mike cosa ne pensasse del piano di Holyfield, rispose: “Tutti hanno un piano nella vita, finché prendono un pugno in faccia”. Ecco, questo è il mio modo di approcciare alla vita. Senza troppi programmi.

E possibilmente senza pugni, immagino.
Non da Tyson, no davvero.

Carta di identità
Francesco Cefalù è Chief Development Officer, il responsabile della strategia di sviluppo globale, di Mandarin Oriental Hotel Group; sostiene gli obiettivi di crescita dell’azienda e si assicura che il marchio sia ben rappresentato nelle varie destinazioni. Entrato a far parte del gruppo nel 2016 come Regional Development Director per l’area EMEA, ha guidato la strategia di sviluppo nella regione, realizzando progetti tra cui il Lago di Como, Riyadh, Mallorca, Zurigo e Tel Aviv. Francesco ha un’esperienza pluriennale nel settore immobiliare dell’ospitalità, tra cui contratti di gestione alberghiera, investimenti aziendali e accordi residenziali. Nei suoi ruoli precedenti ha lavorato per Four Seasons Hotels & Resorts e Hilton Worldwide, ricoprendo posizioni dirigenziali in Brasile, Italia e Regno Unito. Francesco si è laureato in Economia presso l’Università Bocconi di Milano. Ha poi conseguito un MBA presso la Harvard Business School di Boston. Attualmente, lavora nella sede del gruppo a Londra.
Francesco Cefalù, l’italiano di Mandarin - Ultima modifica: 2023-11-10T09:36:25+01:00 da Gianluca Miserendino

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