Giovanna, the Best. L’intervista alla Ceo di BWH Hotel Group Italia

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Napoli e Assisi, la finanza e l’ospitalità, Hegel e Heidegger, i must per dirsi catena alberghiera e i maybe delle questioni di genere: intervista alla Ceo di BWH Hotel Group Italia, tra i volti più famosi – e sorridenti – del turismo italiano.

A volte il valore di un brand passa dalle persone, prima ancora che dalla creatività notturna dei disegnatori di loghi e dai giochi di parole dei pensosi ideatori di slogan. Basta guardare il sorriso di Giovanna Manzi, che per chiunque abbia in qualche modo attraversato le vie dell’ospitalità italiana negli ultimi vent’anni è, più di tante possibili identità visive, il vero volto di Best Western, o BWH Hotel Group che dir si voglia. La Ceo Italia della compagnia alberghiera è donna di sostanza ma anche di forma, nel più letterario dei sensi, e sa tenere insieme Heidegger e il rebranding, Hegel e il franchising, la letteratura sudamericana e le questioni di genere. E, last but not least, il sacro dei peperoni imbottiti e il profano di un panino americano. Come solo le donne al comando sanno fare.
Napoletana di nascita, ma cresciuta ad Assisi. Com’è andata?
La mia è una famiglia di napoletani, da generazioni, e lì sono nata. Quando avevo tre anni, con la mia famiglia ci siamo trasferiti in Umbria, ed è lì che ho trascorso tutti gli anni della mia formazione, laurea compresa.
In cosa si è laureata?
In Finanza dei mercati mobiliari, con una tesi che è stata premiata da Alleanza Assicurazioni. Nel corso dei colloqui di rito, la loro psicologa mi disse una frase di cui mi sarei poi spesso ricordata: “Penso che tu possa fare bene in questo lavoro, sei preparata, ma tra sei mesi saresti la persona più triste del mondo. Sei una persona fatta per le relazioni, per il marketing, e non per la finanza”. Mi mise in crisi, perché fino ad allora avevo guardato al marketing come a un argomento ovvio, quasi banale.
E quindi?
Mi venne in aiuto mio padre, che mi indicò un master sul turismo e sul franchising, che avrei potuto frequentare da casa, tenendosi ad Assisi. La psicologa ebbe ragione, perché arrivai prima alle selezioni, anche se a volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi continuato il mio percorso nella finanza. Fatto il master, partii per il successivo stage in Subway, a Milford, Connecticut.
Una umbro-napoletana tra i panini a stelle e strisce? Il dio della cucina trema…
Il loro è un caso particolare: il fondatore era un italo-americano, Fred DeLuca, e creò un impero con una precisa strategia di marketing. Sulle location ha scelto di essere follower di McDonald’s: in sostanza, apriva ristoranti dove li apriva McDonald’s, per sfruttare il fatto che le persone non avrebbero mai mangiato ogni giorno al fast food.
Qual è il principale insegnamento che ne ha tratto?
Ho constatato quanto una buona idea, non necessariamente trend setter ma anche follower, possa dare soddisfazioni di business. Ma quello è un contesto lontanissimo dal nostro. Da noi è tutto diverso: basti pensare al tardivo sviluppo del franchising in Italia, che per certi versi arriva oggi su industry come quelle della moda e del f&b. Parliamo di un divario di trent’anni.

Il Best Western Blumarea a Castelsardo, appena entrato nel portfolio del BWH Hotel Group dopo un importante restyling

Dopo gli States, Best Western.
Sì, il Ceo Italia di allora, Flavio Serra, era venuto al master di Assisi. Aveva bisogno di un’assistente marketing, e ho deciso di dare ancora una volta ragione alla psicologa di Alleanza Assicurazioni. Ci ho provato e mi hanno scelta. Poi ho scelto di entrare in Amadeus, poi in Travelonline e di nuovo in Amadeus, come direttore marketing. Infine, nel 2004, il presidente di Best Western mi ha richiamato e mi ha affidato, a 37 anni, l’incarico di Ceo.
Diciotto anni in carica ai vertici dell’ospitalità. Quali sono i rapporti tra i manager dei vari brand? Che ambiente è?
Il turismo è un settore particolarmente endogamo, ci conosciamo tutti e ci sono rapporti amichevoli, a volte di grande stima, ad esempio con Alan Mantin di Hilton o Valerio Duchini di B&B Hotels.
Che questa settimana non ha ancora aperto hotel, c’è da preoccuparsi?
Me li frega tutti (ride). No, scherzo, c’è anche collaborazione e aiuto: se ci sono situazioni dove penso che la loro sia una buona proposizione, do volentieri una mano. E poi sediamo insieme in alcuni tavoli, ad esempio in Assoimmobiliare, con Fabrizio Gaggio di Gruppo Una. Poi ognuno fa il proprio business, e gli scontri su singole negoziazioni stanno nella natura delle cose. BWH, in più, è trasversale e raccoglie in sé gruppi come quello della famiglia Roscioli o quello di Luca Boccato, che è vicepresidente del nostro Cda.
Alcuni gruppi alberghieri per i loro hotel scelgono di affidarsi a grandi brand internazionali invece di “fare catena”, cosa ne pensa?
È una scelta che permette di concentrarsi sulla gestione della struttura lasciando fare gli investimenti sulla riconoscibilità del marchio ai brand, quella che determina la scelta dell’acquisto. Non tutti hanno questa capacità di visione.
A chi si riferisce?
Ci sono imprenditori, anche italiani, che si sono intestarditi sulla creazione di un loro marchio alberghiero. Cosa possibile, naturalmente, ma non sempre: servono spalle solide, in termini di storia e di real estate, come nel caso di Starhotels, o la forza di un gruppo come accade per Unipol con Gruppo Una. Ma in molti altri casi, è una strada che non mi convince.
Perché una catena alberghiera è davvero tale solo se ha tre caratteristiche.
Quali?
Innanzitutto, un marchio riconosciuto, in grado di esprimere una brand promise. È fondamentale. In secondo luogo, bisogna avere una propria distribuzione. Passare da Booking o da Expedia è una soluzione che non esprime capacità di generare business autonomo. Terzo elemento è il footprint internazionale: oggi essere solo la più grande catena alberghiera di una regione italiana, o italiana tout court, di per sé non significa niente. La verità è che in Italia non ci sono le 300 catene alberghiere di cui si racconta. Salvo rivedere la tassonomia. A chi dice “io faccio il franchising”, rispondo che non è cosa che tutti possano permettersi: se non ci sono le tre caratteristiche di cui ho detto, per quale motivo si dovrebbero chiedere delle royalties ai franchisee?

Il WorldHotels Crafted Mulino di Firenze, a pochi minuti dal centro storico, è nato dal recupero di un’antica macina del ‘400

Con la Hilton di Alan Mantin avete in comune il gran numero di brand, nel vostro caso diciotto. Come si gestiscono?
I nostri brand sono tanti, ed è sfidante dare identità a ciascuno di essi. Significa in primo luogo poter contare su uno zoccolo duro “numerico”: se in un Paese un marchio è presente con una sola struttura, costruire identità è davvero complicato. Best Western è nata e cresciuta come un unico brand, che aveva in sé tantissime anime, con degli standard soft ma ben presenti. Abbiamo fatto di difficoltà virtù, spingendo su quello che oggi è un atout delle catene, ovvero la personalizzazione.
In che senso?
Quando avevamo in portfolio Capri e Ravello insieme a Milano, ovvero hotel diversissimi tra loro, per noi era già un valore mentre per altri – che mettevano al centro la standardizzazione delle strutture della propria catena – era vero tutto il contrario.
Oggi la peculiarità della localizzazione, che avevamo già in casa, è stata riscoperta come grande valore e la capitalizziamo. I diversi brand devono via via fare da driver a un portfolio che si adegua: in questo momento stiamo portando avanti un rebranding delle strutture, spostandole nel giusto quadro. Con un unico brand tutte le vacche sono nere, come diceva Hegel. Noi abbiamo acceso la luce, e procediamo in tal senso.
Non è semplice, perché ci sono gli investimenti degli albergatori, i riposizionamenti, i livelli di servizio. Stiamo riallocando le pedine, e sappiamo che questa operazione potrebbe creare confusione nel cliente. È anche per questo che oggi ci ancoriamo al nostro brand storico, anche nelle nostre recenti campagne media. L’housekeeping interno rende ancora più rilevante la legacy, adesso.

Il WorldHotels Distinctive Casati 18 a Milano, nel quartiere di Porta Venezia, è arredato in stile classico e elegante

A una delle protagoniste femminile più note del turismo tricolore non posso non domandarlo: a che punto è la notte nella questione di genere, nel settore?
Il tema di genere c’è e lo sentiamo. Tanti passi sono stati fatti, e io stessa sono testimone di una discontinuità e di una politica basata sul merito e non sul sesso di appartenenza. Parlando con la mia omologa norvegese, mi ha spiegato che nel loro Paese la legge sulle quote rosa è stata istituita a inizio anni ‘90. È per questo che oggi non ne hanno più bisogno. Il fatto che in prima battuta gli uomini scelgano altri uomini è scritto nel dna. È ontologia, che trova ragione nella preistoria e nelle dinamiche di caccia, quando il maschio doveva far gruppo per prevalere su animali altrimenti inaffrontabili. Tornando all’oggi, se gli uomini devono proprio scegliere una donna, per un qualche obbligo o motivo, si passa alla logica del merito. Ma serve un momento di rottura. Nel 2022 il concetto di quote rosa è abbastanza risibile, perché arriva troppo tardi. Ma un movimento c’è: donne che credono nelle altre donne, superando l’altra tara ontologica, quella della diffidenza delle donne verso le altre donne, la rivalità, anch’essa scritta nel dna. Sarà la cultura a determinare il pieno passaggio a un mondo in cui non ci sia differenza, se non per il merito.
Con tanti saluti all’ontologia. Mandiamo Heidegger in albergo.
Esatto.
Cosa ama fare nel suo tempo libero?
Sono una persona molto semplice: sto in famiglia, con mio figlio, mio marito, i miei amici e il mio cagnolino. Sono appassionata di letteratura, adoro Isabel Allende. E poi mi diverto a cucinare per i miei amici, mi piace avere persone intorno.
Il piatto che le riesce meglio?
I peperoni imbottiti, quelli tradizionali alla napoletana. Mia madre mi ha trasmesso le sue radici, nello spirito come in cucina. Anche se mi considero umbra, resto figlia di Napoli nel mio essere estroversa, nella mia passione per le storie, per la cultura e per giganti come Eduardo, Totò e Pino Daniele. E per il mio grande amore, il mare.

La carta d'identità di Giovanna Manzi

Nata a Napoli e cresciuta ad Assisi, la Ceo di BWH Hotel Group Italia è laureata in Economia e Commercio e ha cominciato la sua carriera dopo un MBA focalizzato sul turismo, e dopo aver passato un periodo negli Stati Uniti presso la catena di fast food Subway. Al ritorno in Italia ha ricoperto il ruolo di Marketing Manager in Best Western. Dopo tre anni, ha assunto la posizione di Responsabile Marketing per l’Italia e la Svizzera per il Gds Amadeus, dove è ritornata nel 2002 dopo un periodo in Travelonline, la prima agenzia viaggi della prima era di internet. Nel 2004 viene nominata Ceo di Best Western Italia. Collabora con l’organizzazione “La Carica delle 101”, in qualità di mentor, ed è membro di diversi organismi di settore, compreso il Comitato Hospitality di Assoimmobiliare.

 

 

 

Giovanna, the Best. L’intervista alla Ceo di BWH Hotel Group Italia - Ultima modifica: 2022-08-29T12:59:01+02:00 da Gianluca Miserendino

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HD – Single Template - Ultima modifica: 2021-09-24T15:19:00+02:00 da Redazione Digital Farm
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