Claudio Ceccherelli, il capitano

L’hotel come una nave da governare nei mari dell’ospitalità, con la passione per la scoperta come stella polare e l’umiltà come bussola: Claudio Ceccherelli racconta i suoi cinquant’anni di carriera e la nuova sfida in Lvgh
L’hotel come una nave da governare nei mari dell’ospitalità, con la passione per la scoperta come stella polare e l’umiltà come bussola: Claudio Ceccherelli racconta i suoi cinquant’anni di carriera e la nuova sfida in Lvgh

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Il carisma è dono. Per etimologia, prima ancora che per destino. È un concetto che tiene insieme il tocco divino e l’autorevolezza, l’ascendente sugli altri e il trascendente universale. Ed è a esso che Claudio Ceccherelli ricorre, quando gli si chiede cosa abbia attraversato l’ospitalità lungo i decenni del suo mezzo secolo di lavoro nel settore, arrivando intatto all’oggi. Il carisma come ingrediente segreto della leadership, nell’epoca dei direttori che facevano tremare i polsi al loro passaggio come in quella dell’empatia e della resilienza. Ma non da solo, che dai leader carismatici c’è anche tanto da temere. Bisogna essere anche belle persone, con la giusta umiltà e la voglia di mettere a disposizione degli altri i propri talenti. I carismi, appunto. Come Ceccherelli, che ripercorre la sua storia professionale senza traccia di presunzione, mai. E che oggi, piuttosto che gli allori di una carriera irripetibile, ha scelto una volta di più il foglio bianco e immacolato di una nuova sfida: quella con la società Lvgh. Vissuta con lo stesso entusiasmo di Claudio, quel cameriere quindicenne che giusto cinquant’anni fa decise che l’ospitalità sarebbe stato il suo modo di dare corpo al carisma.

In cinquant’anni che idea si è fatto del concetto di leadership?
Un leader deve essere prima di tutto una bella persona. Facile a dirsi, molto meno a farsi, nel quotidiano, quando l’ascolto dell’altro, la gratitudine per un lavoro ben svolto, la soddisfazione nel regalare un sorriso a chi lavora con noi sono meno scontati. Quando ho iniziato a lavorare, cinquant’anni fa, a dirigere gli hotel c’erano personalità del calibro di Passanti, Biscioni, Rusconi, Guarneri, Pigi, Miconi. La loro era una leadership diversa, perché diverse erano le necessità. L’empatia era ancora di là da venire, così come la resilienza e l’inclusività. Concetti importantissimi oggi, e che allora sarebbero stati persino anacronistici. I direttori erano persone carismatiche, nel senso più profondo del termine, e facevano tremare il personale al loro passaggio. Era giusto così. L’acume economico, la visione, la creatività servono oggi come servivano ieri, anche se all’epoca si andava più per intuizione, mentre oggi abbiamo strumenti che ci permettono di applicare la scienza in hotel. 

Oggi tutto è cambiato.
Sì, a partire dai clienti. Quando facevo il cameriere, non mi era permesso servire la contessina di turno, ospite dell’hotel: era un compito esclusivo del maître. C’era un’etichetta che regolava ogni minimo dettaglio. Oggi è più importante il linguaggio del corpo, l’approccio spontaneo, il gesto sincero. Inutile chiedersi se l’ospitalità fosse migliore o peggiore: sarebbe come chiedersi se sia meglio giocare con la racchetta di legno o in fibra di carbonio. So che oggi per essere leader non basta salutare un collaboratore, ma è importante dedicargli trenta secondi per guardarlo negli occhi e chiedergli come stia suo figlio.

Il mondo dell’hôtellerie era nei suoi progetti fin dal principio? 
Scelsi la scuola alberghiera per la promessa che portava con sé di poter girare il mondo. Già a quindici anni, nel 1972, la mia prima stagione: cameriere all’isola d’Elba. Una volta tornato a casa, i miei genitori faticarono a riconoscermi: il ragazzino molto timido che ero non c’era più. Grazie a quell’esperienza, alla considerazione e alla fiducia del direttore, al piacere di mettermi al servizio degli ospiti, ero maturato. Da lì iniziai ogni anno a fare le stagioni, prima all’Angloamericano di Firenze e poi sull’Adriatico, dove imparai molto dall’ingegnosità e dall’arte di “fare ospitalità con poco” dei romagnoli. A diciannove anni, il direttore del Principe di Savoia Mario Miconi mi assunse per telefono, proprio nel giorno del mio esame di maturità. Era il 1976. Il giorno dopo ero in treno per Milano, per fare ricevimento. Ci sarei rimasto quattro anni, prima di tornare a Firenze, dove mi avevano offerto di insegnare nella stessa scuola in cui avevo studiato. Così, per qualche anno, fui docente di tecnologia e marketing all’Istituto Alberghiero Aurelio Saffi: un’esperienza che mi ha molto arricchito, e che mi ha obbligato alla ricerca e all’aggiornamento.

Poi il ritorno all’hôtellerie.
L’albergo mi mancava e sono andato al Cavalieri di Pisa come vicedirettore, poi al Danieli di Venezia, nell’’87. Nel ’92 sono diventato hotel manager dell’Excelsior di Roma. 

A soli 35 anni.
Sì, e nel ’94 all’Hotel De Paris a Montecarlo. Nel ’97, a 40 anni, ero direttore di Villa d’Este: un paradiso che mi è rimasto nel cuore e che ho lasciato nel 2002 per aprire il Park Hyatt di Milano. Quella di una nuova apertura era una sfida che mi affascinava, e già dalla camera-campione del Park Hyatt mi ero reso conto di quanto la ricettività stesse cambiando. È stato il mio passaggio dal classico al contemporaneo. Oggi posso dirlo: quello che si impara in una catena – soprattutto a livello di leadership – non lo avrei mai appreso in un albergo indipendente. In una catena multi-brand, poi, che ha un approccio al lusso necessariamente diverso rispetto ai monobrand come Four Season, Peninsula, Mandarin, One & Only, Aman Resort. In Hyatt il lusso era solo uno dei target, elemento che rende la sfida ancora più bella, perché sai che devi garantire qualità senza dimenticare il profitto. Al Park Hyatt sono rimasto dieci anni, facendo molta innovazione – soprattutto sulla ristorazione – e creando con la squadra una cultura, una base di valori da trasmettere. Lo dico senza nessuna volontà di ostentazione, anche perché un direttore moderno deve ricordarsi di essere umile e di non farsi prendere dall’ego. Il personale si ricorda di te per ciò che hai fatto per loro, e sono felice che molte persone che hanno lavorato al Park Hyatt adesso siano negli alberghi top di mezza Europa.

Da Milano alla Croisette.
Sì, nel 2013 stavo lasciando Milano per andare all’Hotel Martinez di Cannes, curando il passaggio da Concorde a Hyatt. Ricordo con piacere che durante una tre giorni di congresso dei direttori Hyatt, il presidente lanciò il nuovo company purpose: “We care for people so they can be their best”. Molti anni prima che in hotel arrivassero resilienza, inclusione ed empatia. Mi ha segnato molto. A Cannes sono stato 3 anni, poi mi hanno chiesto di tornare nel brand Park Hyatt e sono stato 6 anni a Parigi.

Diciannove anni in Hyatt. E poi?
A fine 2021, per la voglia mia e di mia moglie di tornare in Italia, e per il mio desiderio di lavorare alla creazione di una piccola collezione di hotel-gioiello, sono approdato in Shedir Collection. In essa abbiamo fatto affluire il Capri Tiberio Palace e l’Hotel Vilòn Roma, che erano già aperti e affermati, e aggiunto il Maalot Roma, Umiltà 36 Luxury Hotel Roma, Palazzo Vilòn e Palazzo Roma, quest’ultimo di prossima apertura. A parte il servizio molto personalizzato, quasi da padroni di casa, la peculiarità stava nel design, contemporaneo ed eclettico: a Roma quattro alberghi offrivano quattro esperienze di ospitalità diverse. 

Due anni dopo, una nuova sfida.  
Da un paio di mesi sono direttore operativo di Lvgh management, una realtà che vuole aprire strutture nelle destinazioni più interessanti d’Italia. È ancora tutto in divenire, un foglio bianco, e mi piace molto questo aspetto. Lvgh è la finanziaria che raccoglie sia la proprietà sia la società di gestione di tre strutture in costruzione. Adesso stiamo definendo il nome della collezione e quella degli alberghi. Presenteremo il brand nel 2024: posso dire che tra le destinazioni ci saranno Roma e Cortina, con la prima apertura nel secondo semestre del 2025. Una bellissima sfida, sì.

Che cosa ama fare quando si toglie la giacca da pensatore di hôtellerie?  
Amo giocare a tennis e leggere. Ma anche viaggiare, esplorare i piccoli borghi della Sicilia o del mantovano, la storia, la cultura. Sono un appassionato di enogastronomia e un collezionista di vini. In una parola, amo tutto ciò che è scoperta.

Senza amarcord: c’è un tratto che rimpiange di come si dirigeva un hotel nel 1972? 
Mi consenta un parallelo con lo sci. Un direttore oggi deve essere come Stenmark: oltre ad eccellere in una disciplina, deve essere bravo a fare la combinata. Deve saper fare un po’ di tutto: occuparsi di numeri al mattino, del personale durante la giornata, degli eventi la sera. Insomma, deve tenere insieme le riunioni di revenue e il saluto ai clienti. Da sempre, il direttore di albergo è il capitano della nave: prima lo era in modo probabilmente più netto, più brutale, e oggi con altri strumenti. Ma trovo molto importante conservare questo ruolo, questa figura, così carismatica. L’ospitalità ne ha bisogno, oggi come ieri.

Carta di identità
Nato nel 1957 a Reggello (FI) Claudio Ceccherelli, dopo aver insegnato presso la scuola alberghiera di Firenze, ha lavorato in vari alberghi dell’allora prestigiosa catena alberghiera Ciga (Principe di Savoia Milano, Hotel Danieli Venezia, Hotel Excelsior Roma) scalando le gerarchie in tutti i ruoli operativi. I successivi incarichi in hotel internazionali cinque stelle hanno messo in luce le sue qualità organizzative ad ampio spettro e la sua capacità di pensare fuori dagli schemi: Hotel de Paris Montecarlo, Villa d’Este, Villa La Massa, Park Hyatt Milano, Hotel Martinez Cannes, Park Hyatt Paris-Vendôme, Shedir Hotel Collection e, infine, Lvgh, di cui è attualmente direttore operativo. Nel 2010 il consorzio mondiale delle agenzie di viaggio Virtuoso l’ha premiato come Hotel of the Year, mentre nel 2022 Ehma l’ha incoronato Hotel Manager italiano dell’anno.

Claudio Ceccherelli, il capitano - Ultima modifica: 2024-01-02T15:14:37+01:00 da Gianluca Miserendino

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