Portare i famigerati fogli di lavoro di Excel nella cucina del proprio ristorante, per ottimizzarne i processi e la resa soprattutto – ma non soltanto – in termini economici. È in fondo questa, la ragione sociale del food cost, argomento spesso ridotto a mero calcolo entrate-uscite e invece disciplina complessa ma capace di trasformare i destini di un’attività, se ben applicata.
Come? Ce lo racconta Gaetano Marinaccio, consulente e imprenditore con una importante storia di turismo e ricettività alle spalle che aiuta gli albergatori a mettere a punto la “macchina ristorativa”.
Il food cost nel mondo alberghiero ha una specificità o ha regole uguali per tutti?
Non esiste un solo food cost, ma tanti, e le regole giuste per un ristorante indipendente sono diverse da quelle da applicare in una attività di ristorazione all’interno di un hotel. A partire da alcuni elementi di base: in un albergo, per esempio, vanno integrati tutti i concetti legati alle colazioni, agli aperitivi e al banqueting. Poi ogni hotel avrà il suo approccio ottimale, anche in base alle stelle, al dimensionamento e al target. Ma in linea generale possiamo dire che – quando applicato in un contesto alberghiero – il food cost diventa addirittura più vantaggioso.
In che senso?
Basti pensare all’intercettazione della clientela: in hotel è in gran parte già residente. Un costo non indifferente che viene del tutto meno, anche in termini di comunicazione. E poi c’è l’incidenza dei costi delle risorse umane, che negli hotel è assorbita molto meglio. Il problema è che spesso in albergo si riduce il food cost al suo stato più primitivo, ovvero all’equazione “acquistata la materia prima, e considerato lo scarto e i costi di trasformazione, applico un utile e trovo il prezzo finale al cliente”. Una lettura che esclude voci importanti come il costo del personale, quello delle mura – tra affitti e mutui – e degli imprevisti, le assicurazioni, le utenze, il diverso regime fiscale sull’Iva… Tutte voci che incidono sulla marginalità, che dovrebbe arrivare fin dal primo piatto che esce dalla cucina, e non dal centesimo in poi.
Quale elemento sfugge maggiormente agli albergatori?
Oltre al peso delle spese che ho appena citato, a mancare è il quadro complessivo. È per questo che definisco quello che propongo come consulente come “food cost 3.0”, che diventa “full cost” e vuole portare il controllo di gestione in cucina. A partire dai fogli Excel, necessari per prendere in analisi costi fissi, costi variabili e costi totali. L’albergatore deve capire che preparare dieci chili di confettura oppure cento sono operazioni diverse. E conviene dotarsi degli strumenti per produrne sempre cento. Poi c’è la questione dei menu fissi: un hotel difficilmente cambia la sua proposta nel corso dell’anno, portandosi dietro sui dodici mesi il pomodoro o il carciofo, senza considerare l’enorme differenza in termini di costo nel corso delle diverse stagioni. A volte basterebbe proporre la bruschetta al pomodoro d’estate e quella alla zucca d’inverno, per capirci. Le tariffe delle camere sono dinamiche già da anni, i menu invece no: e non si capisce perché.
Come si applica bene il food cost?
In fondo si tratta di prendere carta e penna. I software di controllo di gestione sono ottimi, ma hanno bisogno dei giusti parametri e di dati sui quali fornire le loro elaborazioni. Serve ordine nella gestione del dato, e un’idea molto precisa dell’azienda e dei propri ospiti. Infine, bisogna delegare, responsabilizzare e formare costantemente chi si deve occupare di questi dati, perché la linea sia chiara. Per fare un esempio, è certamente importante essere precisi negli acquisti del latte, ma lo è altrettanto sapere quanti ospiti lo hanno consumato a colazione. Più in generale, serve una tracciabilità del rapporto tra acquisti e vendite, fatture alla mano, mentre sono pochi gli alberghi che a fine colazione fanno l’inventario di quanto non è stato venduto, incrociandolo con il profilo degli ospiti di quella mattina, anche geografico e per fascia di età, elementi che influiscono sul f&b. Se non si riesce a tirar fuori un utile da un ristorante in hotel, meglio chiuderlo o darlo in gestione, perché la vecchia teoria del “salvare il salvabile”, cercando di non rimetterci, non è più concepibile.
Gli chef in questo contesto devono saper tenere insieme arte e matematica.
Anche, sì. Agli chef spetta il compito di ottimizzare le materie prime, gli acquisti, ad esempio ideando menu che sappiano proporre lo stesso ingrediente su più piatti completamente diversi. Un’esigenza che va di pari passo con i processi di conservazione, per i quali sono fondamentali attrezzature come quelle per il sottovuoto e per l’abbattimento, che costano ma hanno un grande valore di recupero nel tempo.
E gli hotel che non si prestano per dimensionamento a questi investimenti?
Il food cost si può applicare nella struttura da cinque camere come in quella da mille, fatte le debite proporzioni. Piuttosto, è più importante capire il tipo di operazione che si vuole fare, se incentrate sulla brand reputation o sullo storytelling, sul cliente repeater o su quello occasionale, su quello business o su quello leisure… Il food cost ideale dipende dal singolo hotel ma attiva processi che – dopo una prima fase di impostazione – va avanti benissimo da solo. Allora sì che i software diventano utilissimi, dando loro le giuste regole. E in questo un consulente può aiutare molto, e garantire fino al 40% di risparmi sugli acquisti.
Come si evita il rischio opposto, ovvero quello di proporre al cliente un costo eccessivo?
Torno a quanto dicevo all’inizio: a un hotel intercettare un cliente per il suo ristorante costa poco e niente. A volte basta un calice di un’ottima bollicina da consumare al tavolo, o una proposta di menu speciale nella conferma di prenotazione o sugli schermi delle aree comuni, per innescare un meccanismo virtuoso. Ma in troppi applicano ancora la filosofia della mezza pensione o della pensione completa, quando invece bisogna “spacchettizzare” il più possibile: a partire dalla colazione, in determinati casi. E poi bisogna rendere dinamici i menu, spesso obsoleti e molto rigidi, oltre che freddi. Infine, bisogna essere competitivi con ciò che c’è fuori dalla struttura: non è pensabile far pagare quattro euro un caffè o cinque euro una bottiglietta d’acqua, pena l’interrompere il flusso di vendita. Un discorso che vale anche per i minibar in camera, a volte pieni di prodotti che l’albergatore ha pagato e che restano lì a scadere. A questo punto meglio offrirli vuoti per gli acquisti autonomi degli ospiti, dotarli di una sola bottiglia d’acqua gratuita o comprenderli nel costo camera.