Il martirio della pazienza

Il martirio della pazienza è una curiosa espressione coniata dall'ex segretario di Stato del Vaticano Agostino Casaroli per sintetizzare la filosofia della diplomazia vaticana. Vale anche per chi opera nel turismo in Italia. Crederci fermamente, senza compromessi, sapendo di operare su tempi lunghi
Il martirio della pazienza è una curiosa espressione coniata dall'ex segretario di Stato del Vaticano Agostino Casaroli per sintetizzare la filosofia della diplomazia vaticana. Vale anche per chi opera nel turismo in Italia. Crederci fermamente, senza compromessi, sapendo di operare su tempi lunghi

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A volta bisogna andare controcorrente a costo di risultare impopolari: per fortuna non sono in twitter…
E’ diventata una moda sparare a zero sul turismo e soprattutto sul mondo ricettivo italiano dimenticando il contesto, vale a dire il Paese nel quale si è costretti a lavorare. Siamo brutti, sporchi e cattivi. Ma coloro che ci additano come tali sono davvero migliori? Non è che è il solito gioco delle tre carte di chi da secoli ha in mano l’educazione, i mass media, la politica e poi addita il popolo come responsabile dei suoi difetti?
Il 17 febbraio del 1600 Giordano Bruno è stato prima torturato (gli fu strappata anche la lingua) e poi bruciato in Campo dei Fiori a Roma per aver sostenuto il libero arbitrio, cioè il diritto al libero pensiero e a pensare e parlare usando la propria testa e solo quella.
Nel 1633 Galileo Galilei è stato costretto ad abiurare la teoria che vede la Terra girare attorno al Sole e non viceversa. Non l’avesse fatto, prima l’avrebbero torturato e poi bruciato come Giordano Bruno.
A Spoleto un decennio prima un entomologo aveva scoperto che l’alveare delle api è comandato da una regina e non da un re. Papa Urbano VIII Barberini, eletto al soglio pontificio nel 1623, aveva tre api nel suo stemma a indicare che l’arnia ha un re e che il papa lo era. L’entomologo commise l’errore di pubblicare le sue scoperte. Scomparvero sia lui che il suo libro. I Barberini in precedenza erano detti Tafani e avevano tre tafani nello stemma. Avevano cambiato nome e insetti totemici, non intendevano rifarlo.
Il 1700 e il 1800 non sono stati secoli meno complicati per la scienza e la cultura in Italia: la Chiesa pubblicava l’Indice dei testi che non erano ammessi, chi lo faceva rischiava la galera e di peggio. Andò bene ad Alessandro Volta e ai suoi diabolici giochi con l’elettricità perché il nostro nacque e morì a Como in Lombardia (1745-1827) sotto il regime degli austriaci con l’intervallo della dominazione francese durante gli anni della rivoluzione prima, di Napoleone Bonaparte poi (che era oltretutto un suo grande estimatore). Andò peggio agli illuministi napoletani che si illusero di poter fare la rivoluzione sulla punta delle baionette francesi. I francesi si ritirarono, i Borbone si vendicarono impiccandone molti ma soprattutto tagliando i ponti con la cultura progressista che era stata il punto di forza dei primi due regnanti della dinastia, Carlo e Ferdinando. Quest’ultimo diventò reazionario anche per ragioni private: la moglie Maria Carolina era la sorella preferita di Maria Antonietta, la sfortunata regina di Francia ghigliottinata nel 1793. I francesi inoltre all’inizio del 1799 avevano invaso il suo regno obbligandolo a riparare a Palermo sotto la protezione della flotta inglese dell’ammiraglio Orazio Nelson. Fu lui, nell’intervallo tra un’invasione e l’altra dei francesi, a tornare a Napoli a metà del 1799 e a far decretare la morte di 124 giacobini sul totale di 8000 prigionieri mandati sotto processo (222 furono condannati all’ergastolo, 288 alla deportazione, 67 all’esilio, la stragrande maggioranza fu liberata).
L’Italia per farla ci sono volute le truppe di Napoleone III nel 1859, la condiscendenza al limite della complicità della Gran Bretagna nel 1860 che favorì lo sbarco di Garibaldi sia a Marsala che a Reggio Calabria, gli strani rapporti dei garibaldini con la Mafia in Sicilia e la Camorra a Napoli, la cavalcata dell’esercito piemontese verso Sud infrangendo qualsiasi genere di consuetudine diplomatica, la sconfitta degli Austriaci nella polacca Sadowa a opera dei Prussiani nel 1866 e quella di Napoleone III sempre a opera dei Prussiani nel 1870 che ci permisero di acquisire prima Veneto e Friuli, poi Roma, infine la prima guerra mondiale, che esordì il primo luglio del 1914 con la strana morte del generale comandante dell’esercito italiano Alberto Pollio, che era un fidato alleato di Germania e Austria. La sua morte spalancò le porte a Luigi Cadorna e soprattutto al voltafaccia del governo italiano che l’anno seguente avrebbe dichiarato guerra ai nostri ex alleati. Che l’esercito, come ben sapeva Pollio, non fosse pronto per una guerra di quella portata, non interessò a nessuno dei complottisti e tantomeno degli interventisti, molti dei quali ammantati di un debordante idealismo patriottico. La prima guerra mondiale ci portò Trento e Trieste. Già che c’eravamo, annettemmo anche Sud Titolo, Istria e Dalmazia, la prima terra di lingua tedesca da almeno cinque secoli, le seconde a stragrande maggioranza di lingua slava, anche qui da innumerevoli secoli. Il Fascismo ci illuse di essere diventati una potenza militare, bastò la piccola Grecia nel 1940 per suonarcele di santa ragione. Il resto è storia nota (nel mio caso è anche storia privata visto che mio padre a 23 anni appena compiuti sopravvisse con un principio di congelamento a un piede alla marcia della morte del gennaio del 1943 dal fiume Don, dove erano attestati i nostri alpini, fino alla sacca di Nicolaiewka, a 200 chilometri di distanza, da dove riuscirono a scamparla i pochi sopravvissuti alla gita russa dell’Armir).
Paese povero, agricolo, clericale, con un latifondo a dir poco reazionario nella gran parte del Meridione, la questione sociale al Sud fu risolta con l’impiego dell’esercito italiano che massacrò almeno 100.000 persone in soli quattro anni, tra il 1861 e il 1865, ripetendosi nel 1866 in Sicilia, preparando le condizioni per l’esodo biblico di quelle popolazioni a partire dagli anni Ottanta del 1800. Chi si stupisce e si addolora per la sorte di siriani, eritrei, somali, iracheni e afgani ai nostri giorni, immagini che cosa deve essere stato l’esodo dei nostri meridionali (e dei settentrionali delle montagne, soprattutto del Nordest) senza telefonini e senza televisione a dargli un minimo di voce…
La rivoluzione in Italia è stata parziale e asfittica: ancora alla vigilia della prima guerra mondiale eravamo tra gli ultimi in Europa per sviluppo industriale, oltretutto concentrato solo nel Nordovest del Paese. Questa situazione non era molto cambiata alla vigilia della seconda guerra mondiale anche se va dato merito al tanto detestato Ventennio di aver attuato importanti quanto strategiche bonifiche da Nord a Sud (con il completamento dell’acquedotto della Puglia iniziato però nel decennio che precedette la prima guerra mondiale) che non erano neppure state imbastite nei secoli precedenti dagli Stati e dai governi che si erano succeduti nel Paese.
La rivoluzione industriale inizia dopo la seconda guerra mondiale, continua a concentrarsi nel Nordovest all’inizio, poi si allarga al resto del Paese restando di fatto sulla superficie culturale degli italiani che vantano un grande passato mercantile ma che non hanno avuto alcun ruolo da protagonisti nella rivoluzione industriale iniziata in Gran Bretagna nella seconda metà del 1700, rivoluzione diffusasi soprattutto nell’Europa continentale, poi negli Stati Uniti d’America e infine in Giappone. E’ un fenomeno legato strettamente all’etica protestante che il mondo cattolico fa molta fatica ad assorbire quando non la rigetta del tutto. L’antimodernismo della Chiesa cattolica, che vede nel mondo protestante e nella civiltà industriale che sta costruendo la più grave delle minacce, permea di sé l’intera cultura, di destra come di sinistra, in Italia come in Spagna e in Portogallo, altri Paesi profondamente cattolici dove il fenomeno protestante è stato sradicato con il ferro e il fuoco.
Si può essere moderni perché si indossa giacca e cravatta, perché si guida l’automobile e ci si atteggia a ribelli rispetto alle consuetudini, perché si sono letti quintali di libri, ma nel profondo certi stilemi culturali persistono attraverso i secoli e le mode come hanno dimostrato le incredibili esplosioni di odio nei Balcani negli anni Novanta tra serbi, croati, bosniaci, sloveni, macedoni (in guerra fra di loro praticamente da sempre, divisi anche dall’odio ideologico di appartenere a ben tre diverse religioni antitetiche tra di loro, quella islamica, quella greco ortodossa, quella cattolica), lo dimostrano le improvvise esplosioni di odio e ferocia sia nel cuore dell’Africa dove il tribalismo è ancora identitario che nel mondo islamico, dove la guerra civile è ancora tra sunniti e sciti come mille anni fa. Sono fenomeni antropologici contro i quali gli idealisti sbattono la faccia da sempre. Gandhi voleva l’indipendenza dagli inglesi e la pace e la tolleranza tra indù e mussulmani. Ottenne la prima, fu assassinato nel 1948 da un fanatico indù proprio in nome dell’odio ideologico tra indù e mussulmani, assai più radicato di quanto sospettasse e di quanto il suo idealismo fosse disposto a riconoscere. L’India fu divisa dai suoi stessi dirigenti in due Stati, l’uno indù, l’altro mussulmano, l’uno contro l’altro armati: ci furono un milione di morti solo nella fase della separazione e altri morti nelle guerre che seguirono. Ancora oggi il Pakistan, una delle potenze nucleari della Terra, ha i missili puntati sull’India, che a sua volta ha il dito sul grilletto dell’arma nucleare nei suoi confronti.
L’Homo Sapiens, la nostra specie, negli ultimi 70.000 anni, da quando è sciamato fuori dall’Africa colonizzando il resto del pianeta, non ha fatto sconti a nessuno, le altre specie, sia umane che non che ha portato all’estinzione, ma anche a se stesso. Quando gli esseri umani si incontrano, soprattutto se l’incontro avviene a diversi gradi di sviluppo tecnico e tecnologico, difficilmente prevale la tolleranza e la comprensione. Nelle Americhe gli spagnoli nel 1500 hanno causato la morte diretta di milioni di indios con il ferro e il fuoco e quella indiretta di un numero di indios ancora maggiore a causa anche di malattie comuni tra gli europei (dal tifo alla peste, dal vaiolo al raffreddore) nei confronti delle quali quei popoli non avevano alcuna immunità genetica acquisita. Dove le malattie non sterminarono gli indesiderati, lo fecero le armi come negli Stati Uniti con gli Indiani del continente settentrionale, in Australia con gli aborigeni e in Africa con la tratta degli schiavi che ha depauperato anche dal punto di vista demografico quel continente per almeno due secoli nel 1600 e 1700 oltre che con le potenze coloniali nel 1800.
La Storia in superficie sembra un mare increspato dove ci si perde a rimirare il vento che forma le onde e ad ascoltare i rumori della risacca (in altre parole, il dibattito politico), nel profondo ha la violenza incontenibile dei vulcani che eruttano o esplodono e dei terremoti che scuotono i continenti. Certi processi sono lenti, altri sono esplosivi. Lo stesso accade nella Storia dove la velocità si accompagna spesso alla distruzione.
L’Italia negli ultimi secoli ha sopportato un pesante carico di sofferenze, forse si è illusa negli ultimi decenni di essere approdata su spiagge incontaminate dove splende sempre il sole. Non è così. Ci vuole il martirio della pazienza, curiosa espressione formulata da un cardinale, Agostino Casaroli (1914.1998), segretario di Stato del Vaticano dal 1979 al 1990, firmatario del Concordato del 1984 con l’allora presidente del Consiglio della Repubblica italiana Bettino Craxi. Con quella curiosa frase Casaroli definì la filosofia che impronta da sempre la diplomazia vaticana: essere coerenti con le proprie idee a costo del martirio, aspettare la maturazione degli eventi a costo di sembrare immobili. E’ l’opposto dell’impazienza congenita dell’idealismo, che vorrebbe sempre accelerare i processi rischiando di provocare catastrofi peggiori.
Nel turismo il martirio della pazienza è l’attività che ogni professionista intraprende ogni giorno in un Paese dalle incredibili potenzialità che le ha messe a frutto solo in parte e solo in una parte del Paese. Il martirio della pazienza è l’antidoto alla rabbia e alla delusione, tenendo conto del percorso che comunque si è fatto e delle circostanze storiche che ci aiuteranno a proseguirlo. Quel che è certo è che non si possono obbligare gli italiani a essere diversi da quel che sono, nel bene come nel male. Non viviamo in un mondo pacifico, non apparteniamo a una specie pacifica. E’ bene saperlo per mantenere i nervi saldi davanti alle difficoltà e individuare le migliori strategie per superare gli ostacoli senza finirne travolti. Non è facile ma è l’unica strada percorribile.

Il martirio della pazienza
- Ultima modifica: 2015-09-19T10:42:19+02:00
da Renato Andreoletti

1 commento

  1. UNA PICCOLA REMINESCENZA del significatoi liturgico

    “Io sono la vite, ( i governanti) ( i pecoroni ) voi i tralci.
    Chi rimane in me ( continua a prenderlo in…….) e io in lui ( perchè me lo …..) e tutto questo fa molto frutto,( al loro porco comodo) quindi . perché senza di me ( loro ) (zitti e quieti) non potete far nulla..  .Caro RENATO CHE NE PARLIAMO A FARE?

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